22 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Francesco Grillo

L’Ue si salverà se riuscirà a ritrovare l’ambizione di un progetto che i riti dell’unanimità stanno soffocando in un secolo diverso da quello che ne ha visto la nascita


L’Europa si salva solo se ha il coraggio di cercare le idee per cambiare radicalmente. Solo se riesce a ritrovare l’ambizione che ha nutrito il più bel progetto politico che l’Occidente abbia concepito e che i riti dell’unanimità stanno soffocando. Deve essere questo il nome stesso del programma di chiunque voglia salvare l’Europa dalla sua ora più buia. Ed è, invece, assordante — nello scontro ideologico tra chi difende e chi attacca l’integrazione — il vuoto di proposte su come potrebbe essere un’organizzazione sovranazionale capace di governare un secolo completamente diverso da quello che ne ha visto la nascita.
Un’Europa incapace di riformarsi e decidere. Esclusa, persino, dalla gestione delle crisi di Paesi ad un’ora di volo da Roma o da Berlino. E senza neppure una delle piattaforme digitali attraverso le quali passano le idee che fanno il ventunesimo secolo. E, tuttavia, da quest’Unione non si riesce neppure ad uscire: lo dimostra il fallimento di quella che è, forse, la più preparata classe dirigente del mondo che si è auto intrappolata nel vicolo cieco della Brexit. Assomiglia, oggi, l’Europa ad uno di quei matrimoni all’italiana descritti dai maestri del neorealismo italiano nei film degli anni Sessanta: un’unione fondata sulla retorica del «per sempre» e che, proprio per questo, diventa una gabbia fatta di reciproci tradimenti.
I motivi della crisi sono nel fallimento di un metodo fatto, sin dall’inizio, di integrazioni parziali. Non era ovvio che un’area di libera circolazione delle persone (Schengen) senza un’unica frontiera e un unico regolamento per chi vi volesse entrare dall’esterno, avrebbe reso cronico il conflitto tra Stati sulle migrazioni? Quel metodo fu, in realtà, escogitato — come ammise Jacques Delors — da élite (intellettuali) per convincere altre élite (politiche), facendo la scommessa che l’instabilità delle unioni a metà avrebbero costretto gli Stati a completarle. Quella scommessa è, però, fallita e al suo posto rimane una ragnatela di compromessi basati sul rapporto di convenienza tra politici nazionali che hanno bisogno di un livello europeo per giustificare scelte impopolari e burocrati europei pagati per fare da capro espiatorio.
Tre potrebbero essere gli elementi sui quali costruire una «terza via» tra chi è attaccato ad una prospettiva non più attuale (gli «Stati Uniti d’Europa») e chi l’attacca senza proposte alternative. Innanzitutto, l’Europa deve essere più efficiente: fare meno cose e farle molto meglio. Tra competenze esclusive, concorrenti e di sostegno, l’Unione si occupa di ventisei politiche: praticamente tutte e, tuttavia, anche quelle «esclusive» sono pesantemente condizionate dagli Stati. L’Europa non deve più cadere nella trappola delle aspettative eccessive e concentrare le proprie risorse finanziarie, manageriali e di consenso sulle aree dove è evidente che gli Stati sono troppo piccoli rispetto a dinamiche globali: ad esempio, la regolamentazione delle piattaforme digitali globali o le strategie di contrasto del cambiamento climatico.
In secondo luogo, l’adesione deve essere davvero volontaria ed un atto di responsabilità che coinvolge i cittadini. Ai partiti europeisti italiani sarebbe convenuto, già da tempo, strappare la bandiera della democrazia ai «populisti» e chiedere loro agli italiani se avevano ancora voglia di stare nell’Euro. Molto probabilmente, messi di fronte a scelte assai chiare, gli elettori sanno fare di conto. E anche se ciò non succede (nel caso della Brexit le conseguenze non erano altrettanto nette) dobbiamo ricominciare a pensare che scelte non condivise sono sempre scelte deboli e che la democrazia è un processo rischioso ma di apprendimento collettivo.
In terzo luogo va ribaltata — proprio come per i matrimoni all’italiana — l’idea dell’irreversibilità delle unioni e delle stesse istituzioni. Hegel aveva dello Stato un’idea immanente; nel ventunesimo secolo è fondamentale, invece, provare a organizzare l’esercizio del potere in maniera efficiente e flessibile, concedere velocità differenziate e la possibilità — con un costo ma ordinata — di cambiare idea. Una prospettiva di questo genere passa attraverso accordi assai faticosi. Che però verrebbero accelerati se non escludessimo la possibilità di alleanze completamente nuove che vadano oltre lo schema dei trattati: Francia e Germania sembrano essersene accorte ad Aquisgrana.
L’Europa non rischia di finire perché al suo posto ci sarebbe un baratro che nessuno si può permettere. Rischia, però, ed è molto peggio, di rimanere intrappolata — con i suoi Stati e i suoi Popoli — in un declino che la condannerebbe definitivamente all’irrilevanza e alla sclerosi burocratica. Per ridarle energia abbiamo bisogno di restituirle obiettivi realistici ed entusiasmanti: quelli senza i quali i sogni perdono senso.

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