Il Vecchio Continente sarebbe in grado di allestire un sistema efficace di difesa senza appoggiarsi alla forza militare degli Usa?
Se si vuole davvero costruire una difesa comune europea bisognerà affrontare almeno tre questioni importanti, di natura politica, finanziaria e industriale. Il primo dilemma sembrava ormai risolto, ma è tornato attuale con l’incognita di un possibile ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca. Da settimane non si fa che parlare del pericolo che l’America possa abbandonare l’Europa al suo destino. I governi del Vecchio Continente, allora, sarebbero in grado di allestire un sistema efficace senza appoggiarsi alla forza degli Usa? In teoria si potrebbe fare, ma a costo di uno sforzo economico-finanziario imponente. Qualche numero, ricavato da un’analisi pubblicata dall’ambasciatore Alessandro Azzoni sul sito di Affarinternazionali, nel giugno del 2022, pochi mesi dopo l’aggressione russa all’Ucraina. Prima della guerra i 27 Stati Ue stanziavano 220 miliardi di euro all’anno, contro i circa 700 degli Usa. «Ma pur spendendo il 32% rispetto all’esborso di Washington — nota Azzoni — i Paesi Ue non arrivano al 10% della capacità militare americana». Ciò significa che senza l’apporto Usa, in ambito Nato, ma non solo, le cancellerie europee dovrebbero recuperare decine e decine di miliardi di euro. Il cancelliere tedesco, il socialdemocratico Olaf Scholz, è stato il primo a invertire la rotta, annunciando, il 27 febbraio 2022, un piano da 100 miliardi di euro, da qui al 2027, «per dare alla Germania il terzo esercito più potente del mondo». Ma, a due anni di distanza, quel proclama appare già esagerato e i tedeschi hanno fatto sapere che non riusciranno neanche a raggiungere l’obiettivo del 2% del Pil dedicato al capitolo militare. E questo sta accadendo in Germania, il Paese più ricco del Vecchio Continente. Si può, dunque, arrivare a una prima conclusione: chi immagina uno sganciamento dalla Nato guidata dagli Usa, dovrebbe spiegare all’opinione pubblica dove si possono trovare le risorse per mettersi in proprio. Più tasse? Più tagli al welfare? Oppure dovremmo accettare il rischio di vivere in un Paese male armato e, di conseguenza, potenzialmente esposto a ogni tipo di minaccia? Ultimo esempio: gli assalti degli Houthi anche alle nostre navi mercantili nel Mar Rosso. Ma la questione riguarda pure gli Stati Uniti. Una larga maggioranza trasversale tra repubblicani e democratici chiede a Germania, Francia, Italia, Spagna di spendere di più per proteggersi. Ma quella stessa maggioranza non vuole sfasciare l’Alleanza Atlantica. Tanto che il 14 dicembre 2023 il Congresso ha approvato una legge che impedisce al presidente di ritirarsi dalla Nato, senza il consenso della Camera e del Senato Usa. Una norma chiaramente preventiva, pensando a Donald Trump. Da notare che uno dei promotori del provvedimento è il senatore repubblicano Marco Rubio, un convinto sostenitore dell’ex presidente.
C’è, poi, un secondo problema politico, tutto interno all’Europa. Fino a che punto gli Stati sono disposti a cedere la sovranità sulle proprie forze armate? Altra domanda sistematicamente schivata nel dibattito pubblico in Francia, Germania e Italia. Oggi siamo ancora nella situazione descritta da un rapporto diffuso dal Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica) il 28 luglio del 2022: «Resta non percorribile realisticamente la soluzione di un vero e proprio esercito europeo comune a causa della tradizionale autonomia delle Forze armate nazionali e della prevalente contrarietà dei governi e dei Parlamenti nei confronti di potenziali cessioni di sovranità». Con margini politici così ristretti, l’Unione europea non poteva che produrre un piano, «la Bussola per l’Europa», sostanzialmente irrilevante: attivare entro il 2030 un contingente di cinquemila soldati per il pronto intervento in caso di crisi. Si pensi che gli Stati Uniti ne hanno fatti sbarcare in Europa ventimila, in soli due mesi, subito dopo l’attacco russo. È evidente che quella «Bussola», approvata dal Consiglio Ue del 21 marzo 2022, sia da ritarare. Il ritardo europeo non è dovuto solo alla quantità, ma anche alla qualità e all’efficienza degli investimenti. Ancora qualche cifra. Il sito del Parlamento europeo informa che «la mancanza di cooperazione tra gli Stati membri nel campo della difesa e della sicurezza comporta uno spreco stimato tra i 25 e 100 miliardi di euro all’anno». Ancora: «l’80% degli acquisti e più del 90% della ricerca e delle applicazioni tecnologiche sono condotte su scala nazionale. Almeno il 30% delle uscite potrebbe essere risparmiato con acquisti comuni».
Il terzo nodo è questo: la segmentazione industriale. Non è nato oggi, ma ora è diventato cruciale, come ha sottolineato, tra gli altri, Roberto Cingolani, amministratore delegato di Leonardo, gruppo leader nel settore militare. In un’intervista pubblicata il 4 gennaio scorso dal «Financial Times», Cingolani sostiene che la crisi in Ucraina ha finalmente spinto le aziende europee a moltiplicare collaborazioni e partenariati. Non sarà semplice, però, mettere in comune soprattutto gli investimenti in ricerca e sviluppo tecnologico: il pre requisito per dare vita a progetti comuni in grado di tenere il passo con i grandi gruppi americani. È una svolta a cui sono chiamati gli azionisti, pubblici o privati che siano, e i manager dei grandi gruppi europei, compresi quelli del Regno Unito. Tra le prime sei aziende, con fatturati superiori a 10 miliardi di euro, tre sono francesi (Airbus, Thales,Safran), due britanniche (Bae Systems e Rolls-Royce) e una italiana (Leonardo). Le tedesche, come la Rheinmetall, hanno dimensioni minori, ma sono, naturalmente, essenziali. Finora non è stato facile competere con il modello americano. Praticamente tutta la spesa militare degli Stati Uniti va ad alimentare gli affari delle corporation nazionali, come Lockheed Martin, Boeing o Raytheon Tecnologies. L’esempio più evidente è il jet F-35, prodotto da Loockeed Martin. Dopo la guerra in Ucraina, si è formata una coda di europei con nuovi ordinativi per l’F-35: Germania, Grecia, Repubblica Ceca, Spagna, Finlandia, persino gli ultimi due Stati neutrali, Svizzera e Austria. Il caccia americano ha surclassato la concorrenza degli europei. Frammentata, come sempre. I francesi si sono presentati sul mercato con il loro «Rafale»; gli svedesi con il «Gripen»; il consorzio tra Airbus, Bae Systems e Leonardo con il «Typhoon». Diversi governi europei stanno comprando molte altre armi «made in Usa». Si calcola che nei prossimi cinque-sei anni ci sarà un trasferimento di circa 80-100 miliardi di euro, tutti soldi pubblici, dall’Europa agli Stati Uniti. Se si vuole più autonomia, anche questo circuito andrebbe interrotto.