Scholz «licenzia» Lindner. Un segnale anche alla Ue per spingere sulla crescita
L’uscita dei liberali dalla coalizione che sostiene il governo di Berlino è una buona notizia per la Germania e anche per l’Europa. I liberali, e soprattutto il loro leader, Christian Lindner, fino a ieri ministro delle finanze, hanno condizionato il governo del cancelliere Scholz insistendo su un’applicazione rigida della legge sul «freno al debito», una norma che di fatto non consente spese in deficit, neppure per investimenti pubblici.
Questo vincolo ha impedito alla Germania di investire nell’ammodernamento delle proprie infrastrutture: da anni la spesa per le linee ferroviarie non copre l’ammortamento della rete, idem per l’infrastruttura di telecomunicazioni. Lo scorso anno Berlino ha soddisfatto l’impegno a contribuire almeno il 2% del proprio pil alle spese della Nato solo facendo ricorso ad un artificio contabile che la Corte costituzionale tedesca non consentirà di ripetere.
Lindner sarà sostituito alle Finanze da Joerg Kukies, segretario di Stato alla Cancelleria e uno dei principali artefici del programma di prestiti congiunti dell’Unione Europea varati per affrontare le conseguenze della pandemia di Covid-19 (Next Generation Eu).
È inutile illudersi. Senza i liberali Scholz non supererà il voto di fiducia del Bundestag necessario per approvare la legge di bilancio e la Germania tornerà presto alle urne, probabilmente nella prossima primavera. Ma le dimissioni di Lindner e il ritorno di Trump alla Casa Bianca pongono Berlino di fronte a scelte che finora ha cercato di mascherare e che da qualche tempo sono emerse nel dibattito tedesco. «Inviterei la Russia ad attaccare i Paesi Nato inadempienti» ha detto il neo-presidente degli Stati Uniti durante la campagna elettorale riferendosi ai paesi che non soddisfano l’obbligo del 2%. I Paesi dell’Ue non possono più illudersi che l’ombrello americano continui a proteggerli gratuitamente. E presto, io spero, si porrà il problema della ricostruzione dell’Ucraina: gli americani, anche l’amministrazione Biden, hanno sempre detto che quei costi dovranno essere pagati dagli europei.
Oggi Trump a ovest, e a est il progetto di Putin di ricreare una Grande Russia autocratica e il disegno di Xi di imporre l’egemonia della Cina nella tecnologia, richiedono un’Europa forte. L’alternativa è lasciare in eredità ai nostri figli una provincia, magari senza debito, ma irrilevante e sottomessa. Il mondo è diventato per l’Europa un luogo insicuro. Come scrisse alcuni anni fa Robert Kagan, storico e politologo statunitense: «È ora che gli europei guardino in faccia la realtà: gli americani vengono da Marte, gli europei da Venere. Prima se ne rendono conto più probabile è che si salvino».
Il punto di partenza è un debito europeo comune, senza il quale oggi è impossibile finanziare la ricostruzione dell’Ucraina, o costruire un sistema di difesa che ci renda indipendenti, per quanto possibile, dagli Stati Uniti, o la ricerca sulla fusione nucleare, la vera sfida della transizione verde.
Occorre abbandonare l’idea che il debito sia solo un onere trasmesso alle generazioni future. Se consentirà loro di vivere in un continente libero e che cresce perché collocato sulla frontiera della tecnologia, ripagare il debito non sarà necessariamente un onere. Così è stato negli anni Sessanta quando i debiti contratti per vincere la Seconda Guerra Mondiale svanirono in meno di un decennio. Perché ciò che conta non è il debito in sè, ma il debito in rapporto al pil: e se l’economia cresce quel rapporto scende da solo e il debito non va ripagato.
Molti pensavano che la paura di Trump avrebbe inibito l’Europa o comunque l’avrebbe spinta a muoversi con più cautela. Per ora non è stato così. Da Berlino arriva un segnale che spinge l’Europa ad accelerare su un percorso che abbia come obiettivo garantire la crescita e la nostra indipendenza.