Per la maggioranza della nostra opinione pubblica il tema è un tabù, ma non vale girarci attorno. Quel silenzio ha la sostanza amara della resa
È dal 7 ottobre che io, come tanti altri spettatori della miriade di talk televisivi dedicati a quanto sta accadendo in Medio Oriente, aspettiamo che qualcuno degli innumerevoli partecipanti intenti a criticar per i più diversi motivi la reazione di Israele all’attacco di Hamas ci spieghi lui, invece, quale avrebbe dovuto essere la risposta giusta secondo il suo illuminato parere. Quel che è accaduto è noto: in una terribile mattina Israele si sveglia sotto una pioggia di missili.
Non solo ma con duecento suoi cittadini, donne vecchi e bambini rapiti e trascinati come ostaggi fuori dai confini, e un altro migliaio e più trucidati nei modi più raccapriccianti. Reagisce, sta reagendo ora, nel modo che sappiamo. Ma non passa neppure un minuto e subito si alza un coro di critiche che diventa ogni giorno più alto: la reazione di Israele è sbagliata, sbagliatissima, ha un effetto controproducente, è sproporzionata, mette in crisi gli «accordi di Abramo», fa infuriare le piazze arabe, viola il diritto umanitario, se la piglia con i palestinesi di Gaza invece che con Hamas (si dà il caso però che Hamas governi Gaza: e dunque é come se nel 1943 qualcuno avesse rimproverato la Gran Bretagna di rovesciare tonnellate di bombe sui tedeschi anziché di riservarle solo ai nazisti) e così via rampognando.
Bene. Ma quale era l’alternativa per lo Stato ebraico? Quale doveva, quale deve, essere allora la risposta «ragionevole» secondo i suoi critici? La reazione con le carte in regola? Che cosa doveva, deve, fare Israele, quale dovrebbe essere la sua azione questa sì, consona e «appropriata»?
Non lo sappiamo, perché almeno a mia conoscenza in tante ore di trasmissioni televisive, di commenti, di analisi ed elucubrazioni di ogni tipo nessuno dei suddetti critici si è mai sentito in dovere di dircelo. Di dirci che cosa avrebbe fatto lui al posto di Netanyahu. Così come continua a non dircelo nessuno dei tanti che sui giornali, dai banchi del Parlamento, in ogni sede, giudica eccessiva, crudele, bellicista, e comunque sbagliata l’azione di Israele intrapresa contro i suoi nemici mortali.
È un silenzio significativo. Ma non già perché testimoni della scarsa cultura militare o della mancanza di fantasia strategica nei protagonisti del nostro discorso pubblico; e neppure per il fatto ovvio che esso, come è evidente, copre in realtà l’inestinguibile e vasta avversione che circonda lo Stato ebraico in una parte importante del nostro Paese. Non già per tutto questo. Ma perché è un silenzio che parla di un’impotenza, dell’impotenza di noi europei.
Lo so che per la maggioranza della nostra opinione pubblica il tema è un tabù, ma non vale girarci attorno. Quel silenzio ha la sostanza amara della resa. Esso testimonia del fatto che ormai in questa parte dell’Occidente non riusciamo neppure più ad immaginare che in una qualunque circostanza, per un qualunque svolgersi degli eventi, possa esserci la necessità di un ricorso alle armi. Un ricorso alle armi vero, intendo, quello in cui si combatte per la vita o per la morte. O forse per qualcosa di ancora più importante: per non perdere la propria dignità, per continuare ad essere se stessi, a contare qualcosa.
È il tabù della guerra, l’illusione della pace perpetua che le opinioni pubbliche europee hanno potuto nutrire per mezzo secolo essendo riparate ben al sicuro sotto la protezione dell’arsenale atomico americano, addirittura prendendosi il lusso di organizzare periodiche dimostrazioni di protesta contro lo stesso. Naturalmente in nome della «pace».
È il tabù della guerra, il rifiuto delle armi mentre ogni giorno cresce intorno a noi il numero dei Paesi che sembrano puntare tutto sul ricorso ad esse. Quel tabù che fa sì che da sempre nell’arena mondiale noi europei contiamo poco o nulla, non abbiamo nessuna voce in capitolo, nessuna politica estera. Sicché oggi ad esempio l’Ucraina stessa, a cui pure qualche aiuto militare lo stiamo dando, tuttavia sa bene che sul nostro sostegno non si può fare alcun affidamento, che solo gli Stati Uniti e la Gran Bretagna al dunque sono realmente al suo fianco.
Il silenzio di tanti nostri politici e di tanti nostri commentatori riguardo la risposta appropriata che secondo loro Israele dovrebbe dare all’attacco di Hamas è null’altro che il silenzio di chi è ormai così estraneo innanzi tutto psicologicamente alla dimensione del pericolo e della minaccia, e del conseguente eventuale scontro militare, che letteralmente non sa che cosa dire. Che non riesce neppure a immaginare che cosa davvero in certe circostanze possa e debba farsi o non farsi. È il silenzio dell’Europa, il silenzio del nulla.