Fonte: Corriere della Sera

di Maurizio Ferrera

La Commissione ha approvato il Pnrr, ma la partita adesso diventa più difficile: bisogna realizzare le 227 misure previste, e non solo quelle


La valutazione positiva che il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) ha ottenuto dalla Ue è sicuramente motivo di orgoglio, come ha affermato Mario Draghi. Certo, la Commissione è stata di manica larga, visto che ha promosso tutti i testi sinora sottoposti . Per il nostro Paese, l’aver messo insieme un piano ambizioso, coerente e dettagliato è però una novità che non poteva essere data per scontata. I più anziani ricorderanno che la «programmazione» fu introdotta già nei lontani anni Sessanta (venne creato anche un ministero dedicato), ma non si è mai radicata come metodo sistematico di governo: né sul piano degli obiettivi, né su quello dell’attuazione. Grazie al Pnrr, disporremo ora di una bussola per le politiche pubbliche dei prossimi sei anni. Non è poco: la prima rata di fondi europei (25 miliardi, da luglio) ce la siamo meritata.
La partita adesso diventa più difficile: bisogna realizzare le 227 misure previste, senza contare le cosiddette riforme capacitanti, quelle che non costano, ma cambiano le regole del gioco (come giustizia e pubblica amministrazione). Il cronoprogramma è serrato e preciso nelle scadenze e nei contenuti. La lettura fa tremare le vene ai polsi: presuppone una capacità di agire che è anni luce lontana dai nostri standard abituali. C’è da chiedersi se il governo e i partiti che lo sostengono siano consapevoli della enormità della sfida. Dai primi passi concreti, sembra di no.
Prendiamo il decreto legge «semplificazioni e governance», varato il primo giugno scorso. Un atto dovuto, ma anche provvisorio e incompleto. Il testo è stato trasmesso alla Commissione Affari istituzionali della Camera, poi passerà al Senato, con la solita rincorsa di emendamenti. Ammesso che vengano rispettati i sessanta giorni, la conversione in legge non concluderà il processo decisionale. Bisognerà infatti adottare tra i 18 e i 30 provvedimenti attuativi. Per dare un’idea dei nostri tempi: dei 37 provvedimenti previsti dalla legge Conte sulle semplificazioni (settembre 2020), ne sono stati approvati ad oggi solo 8.
Fra le riforme da varare entro la fine di quest’anno vi è quella delle politiche attive del lavoro, che il ministro Orlando vuole collegare alla revisione degli ammortizzatori sociali. Secondo il cronoprogramma, fra sei mesi dovranno entrare in vigore i decreti inter-ministeriali che istituiscono la Garanzia dell’occupabilità dei lavoratori (Gol), nonché il Piano per le nuove competenze. Due misure importanti, che introdurranno nuove opportunità ma anche nuovi obblighi per tutti i percettori di trasferimenti e sussidi, compreso il reddito di cittadinanza. Nel 2022 ci siamo impegnati a offrire le prestazioni della Gol (formazione inclusa) a non meno di 3 milioni di beneficiari. Un’impresa a dir poco eroica. E ciascuna delle sei «missioni» del Pnrr richiede sforzi altrettanto onerosi.
Gli ostacoli attuativi non riguardano solo l’inefficienza del sistema governo-parlamento-amministrazione (compreso il livello regionale). Le riforme sono destinate a scontrarsi con le resistenze dei vari interessi coinvolti: pubblico impiego, imprese, sindacati, la pletora di categorie che preferirebbero mantenere lo status quo, oppure che cercheranno di lucrare vantaggi. Gran parte del Pnrr riguarda ambiti nuovi (transizione verde e digitale), non è chiaro a chi toccheranno costi e benefici. Emergeranno perciò conflitti distributivi diversi dal passato. Con un sistema partitico fluido e frammentato come quello italiano, non sarà facile forgiare compromessi e orchestrare il consenso.
C’è poi il versante esterno. Le nove rate successive a quella di luglio verranno erogate dopo una verifica del «conseguimento soddisfacente» dei pertinenti traguardi e obiettivi dei piani nazionali. Chi effettuerà la verifica? In prima battuta la Commissione, ma l’ultima parola spetta al Consiglio, dove siedono i governi nazionali. Insomma, dovremo fare i conti anche con le valutazioni di quei Paesi «frugali» (Olanda in testa) che si erano battuti contro il Next Generation Eu (Ngeu), non molto ben disposti verso il nostro Paese. I prossimi nove esami non saranno una passeggiata.
A Cinecittà Ursula von der Leyen ha elogiato l’Italia, ma ha anche fatto capire che il nostro Paese resterà sotto i riflettori europei. Con il Ngeu finanziato da debito comune, la Ue ha fatto una scommessa sulla nostra capacità di ripartire, su un sentiero di sostenibilità. Saremo all’altezza del compito e delle aspettative? Finora, il «metodo Draghi» ha assicurato una adeguata effettività di governo. Senza un sostegno più convinto, fattivo e responsabile dei partiti (e di tutta la classe dirigente di questo Paese) sarà difficile dar prova di un «conseguimento sufficiente» degli obiettivi. Che è fondamentale non solo per accedere alle risorse europee, ma soprattutto per arrestare la spirale di declino in cui l’Italia si è da tempo avvitata.

A.N.D.E.
Panoramica privacy

This website uses cookies so that we can provide you with the best user experience possible. Cookie information is stored in your browser and performs functions such as recognising you when you return to our website and helping our team to understand which sections of the website you find most interesting and useful.