Fonte: Corriere della Sera
di Franco Venturini
Non ci saranno le rivoluzioni annunciate dai sovranisti. L’Unione del dopo urne sarà chiamata a riconoscere le inquietudini dei suoi popoli
Sulle schede elettorali del 26 maggio, nascoste dietro i simboli di partiti e movimenti, ci saranno due domande che rendono straordinariamente importante una consultazione altre volte noiosa e trascurata. La prima riguarda il futuro dell’Europa: riuscirà a sopravvivere malgrado tutti i suoi difetti? La seconda riguarda noi: se l’Europa vivrà, l’Italia saprà continuare a farne parte?
Al primo quesito rispondono unanimemente i sondaggi, e anche la storia. L’Europa sopravvivrà come sempre ha fatto nei momenti più difficili della sua esistenza, e non soltanto resterà a galla ma imparerà a nuotare meglio. Non ci saranno le rivoluzioni annunciate dai sovranisti nostrani e di altri Paesi, non si verificherà il rovesciamento totale dei rapporti di forza malgrado la presenza, nel centrista Partito popolare, di un moderno cavallo di Troia chiamato Orbán. Piuttosto, l’Europa disegnata dalle urne sarà chiamata a soddisfare una condizione politica che non prevede ulteriori ritardi: quella di riconoscere le inquietudini dei suoi popoli senza scambiare lo scampato pericolo elettorale per una autorizzazione alla continuità. Deve capire velocemente, l’Europa del giorno dopo, che i nuovi antieuropeisti cavalcano fenomeni sociali autentici, che accanto alle strumentalizzazioni della propaganda esistono davvero le classi medie impoverite dalla globalizzazione.
Deve capire che sono effettivamente cresciute la paura della povertà e quella della prossima rivoluzione tecnologica, che le economie balbettanti non creano abbastanza lavoro e che ampi settori sociali reclamano protezione e sicurezza forse senza accorgersi che hanno già il migliore welfare del mondo.
Chiuse le urne e affidati gli incarichi, l’Europa per salvarsi dovrà lanciare alle sue genti quei segnali che negli ultimi anni sono mancati. Si deve collaborare di più tra Stati della Ue e governi terzi per un ragionevole e non violento contenimento dei flussi migratori, sfidando quella propaganda che tace, per esempio in Italia, sul fatto che sono proprio i sovranisti di Visegrad e i loro amici a rifiutare la redistribuzione dell’accoglienza. Va ricreata la fiducia nell’Europa rispondendo alle attese dei gruppi sociali sfavoriti con nuove volontà politiche che dovranno puntare al completamento dell’Unione bancaria con la garanzia sui depositi, oppure, nella migliore delle ipotesi, a un fondo europeo anti-disoccupazione. Sempre che la Germania superi il suo timore di «pagare per gli altri», si dirà giustamente. Ma una Europa forte e con più consenso non è forse indispensabile a Berlino, ora che Trump l’ha messa nel mirino come e forse più di Putin?
Se a tutto questo si giungerà, e soltanto una Europa che si sente con le spalle al muro può riuscirci, torneranno buone le già approvate diverse velocità di integrazione, la moltiplicazione dei voti a maggioranza e la riduzione dei diritti di veto, le riforme necessarie per aumentare la difesa comune da nuove crisi economiche globali. Servirà coraggio. Ma se coraggio ci sarà la critica estremista perderà gran parte delle sue ragioni, e scoprirà, come sta già accadendo, che pensare a un internazionalismo sovranista è una contraddizione in termini. Un futuro può esserci, per costoro, soltanto fuori dall’Europa o senza Europa. Il che dovrebbe far riflettere sulle loro intenzioni, o fatali punti di arrivo.
Così come dovrebbe essere facile riflettere sull’assunto di quei seguaci di Steve Bannon che dichiarano storicamente inutile l’Europa di oggi paragonata a quella, finalmente pacifica, dell’immediato dopoguerra. Nessuno intende sottovalutare la pace, che è una conquista dell’Europa. Ma è anche vero che le dimensioni europee facilitano prosperità economica e commerci, sono indispensabili nella tecnologia, e preziose nella ricerca. E c’è dell’altro, anche se a Bannon non piacerà. L’ordine mondiale è in trasformazione proprio sulla spinta dell’intelligenza artificiale e della competizione commerciale. Usa, Cina e Russia (per il suo arsenale nucleare) non andranno d’accordo tra loro ma domineranno gli altri. L’Europa con le sue Nazioni riuscirà a conservare uno spazio e una voce? Non è sicuro, soprattutto se Donald Trump sarà rieletto. Ma vale la pena di provarci, necessariamente insieme.
E l’Italia? L’Italia di oggi è un Paese cruciale che si è auto-isolato, un Paese dove i politici di governo credono di attirare il consenso elettorale annunciando la crescita del deficit e del debito pubblico, un Paese dove la tattica è tutto e la strategia non esiste. Ma attenzione, perché se le speranze di cui sopra troveranno riscontri anche parziali nell’Europa di domani, se i giocatori sulla scacchiera europea si renderanno ben conto di essere impegnati in una partita per la vita, non ci saranno più rendite di posizione per i «Paesi fondatori» . Non basterà più essere membri dell’Eurogruppo. I compromessi con chi non sta alle regole si faranno rarissimi, perché nessuno vorrà essere considerato un affossatore dell’Unione per favorire gli italiani. E potrà accadere, andando avanti di questo passo, che nessuno compri più il nostro debito. Che una economia forte e commerci intensi non bastino a bilanciare il provocatorio disordine delle finanze pubbliche. Tanto più in un Paese, a quel punto tutti lo ricorderebbero, che ha processi decisionali difficili da decrittare, che rispetta le corporazioni e ha una giustizia troppo lenta, che ha livelli inquietanti di evasione fiscale e scolastica, di corruzione e di malavita organizzata, e che non ha politica estera ora che non serve più delegare alle istanze multilaterali.
L’elenco, benché incompleto, è forse troppo severo e in alcuni passaggi non riguarda soltanto noi. Ma contiene anch’esso una speranza: che i governanti del dopo-elezioni pensino di più alle pericolose debolezze nazionali e di meno a una propaganda che galoppa verso il precipizio.