Nell’area centro-orientale il vento di destra si tinge di rimpianti filo-sovietici, come mostra il caso slovacco. Al contrario di quanto avviene in Francia, Italia, Spagna e Germania dove il nazionalismo populista è spesso tinto di nostalgie fasciste o poujadiste
Le elezioni slovacche hanno consegnato la vittoria a Robert Fico, già ex premier, leader di un partito ibrido: socialdemocratico, ma anti-liberale e nazionalista. La Slovacchia è un piccolo Paese periferico, a volte confuso con la Slovenia(come fecero sia Trump che Berlusconi). Sbaglieremmo tuttavia a sottostimare le implicazioni del voto slovacco per l’intera Ue. Fico ha vinto con una strategia deliberatamente populista. Ha sfruttato la diffusa insicurezza dei propri concittadini promettendo sussidi e meno immigrazione e cavalcando le crescenti simpatie filo-russe, a loro volta orchestrate dalla propaganda di Putin. In campagna elettorale, Fico ha annunciato che non manderà più armi all’Ucraina, e si è lasciato andare a giudizi davvero grotteschi, come quello secondo cui la guerra viene sempre dall’Ovest, mentre l’Est porta la libertà. La nuova Slovacchia è destinata ad allinearsi ancor di più a quel modello di democrazia illiberale già praticato da Orbán e Morawiecki. Anche la Polonia (dove si vota fra due settimane) sta prendendo le distanze dalla Nato e dalla Ue sulla guerra in Ucraina. Smetterà di mandare aiuti e sta già bloccando l’importazione di grano ucraino, violando gli accordi Ue. La base sociale del nazionalismo illiberale nei Paesi centro-orientali è simile a quella dei partiti di estrema destra nella «vecchia Europa»: ceto medio impoverito dalla crisi e dall’inflazione, periferie urbane e campagne marginalizzate, anziani in povertà.
La proposta politica indirizzata a questi gruppi si chiama «sciovinismo»: un misto di protezionismo economico, welfare riservato ai nazionali, esaltazione dei valori tradizionali, nostalgia del passato. Vi è però una grande differenza: mentre in Francia, Italia, Spagna o Germania il nazionalismo populista è spesso tinto di nostalgie fasciste o poujadiste, nell’Europa centro-orientale si tinge di rimpianti filo-sovietici, come mostra il caso slovacco. Il vento di destra che sta spazzando l’Europa preoccupa non solo per il suo scetticismo nei confronti dell’Europa e degli Usa, ma anche perché soffia in due direzioni contrapposte, resuscitando gli spettri ideologici che hanno dominato i decenni più bui del Novecento.
Come evitare questo scenario? Nel breve-medio periodo, occorre risolvere le due grandi sfide dell’attuale agenda europea. La prima riguarda l’immigrazione. Sul tavolo negoziale c’è un pacchetto di misure proposto dalla Commissione (il Patto sull’Immigrazione), volto a superare il famigerato Regolamento di Dublino che impone ai Paesi di primo arrivo l’obbligo di gestire da soli i flussi. L’Italia ha ragione a chiedere più Europa, ma non deve dimenticare che in termini percentuali rispetto alla popolazione sia lo stock di extracomunitari già residenti sia gli arrivi sono più bassi rispetto ai Paesi con cui ci confrontiamo, in particolare se contiamo i profughi ucraini.
La seconda sfida è quella economica. Il nuovo patto di Stabilità deve tener conto della crisi sociale in cui versano ancora molti Paesi dell’eurozona (di cui fa parte anche la Slovacchia). C’è grande bisogno di stabilizzatori fiscali comuni, non di lasciar scadere quelli creati durante il Covid.
È però soprattutto sul lungo periodo che bisogna investire. L’attuale presidente slovacca ha denunciato il progressivo «allontanamento mentale dall’Occidente» del proprio Paese, metafora che ben descrive anche la situazione polacca e ungherese. Questa tendenza è visibile nel disimpegno verso l’Ucraina ma lo è ancor di più nella violazione dei principi dello Stato di diritto e della democrazia liberale. Robert Fico ha annunciato modifiche al sistema giudiziario e a quello elettorale, nonché misure contro la minoranza Lgbtq+. La crisi migratoria e quella economica e sociale hanno fatto emergere due preoccupanti linee di faglia: una sui principi ispiratori del regime politico Ue e una sulla sua collocazione internazionale. Se l’Unione si spaccasse su tali questioni (che si incrociano nella guerra ucraina) il nostro continente ne uscirebbe sconvolto, come ha scritto recentemente Paolo Mieli (Corriere, 27 settembre).
In questo quadro, per il governo italiano si prospetta una importante opportunità strategica. Meloni condivide con i leader di Slovacchia, Ungheria e Polonia una visione politica conservatrice, imperniata sui valori della tradizione e della nazione. Da loro si distingue tuttavia per essere una convinta atlantista, che non mette in discussione i principi della democrazia liberale ed è passata dal sovranismo all’euro-realismo. La premier italiana ha compreso che un’alleanza fra «piccoli patriottismi» non porta da nessuna parte nel mondo di oggi. E sembra impegnata a costruire un orizzonte politico e culturale più ampio, volto a difendere la civiltà europea (occidentale) nelle sue radici comuni, al di là delle pur importanti differenze di superficie.<
Il progetto è difficile da realizzare. Per contenere le spinte centrifughe dei venti di destra bisogna sigillare gli scheletri degli autoritarismi novecenteschi nell’armadio della storia. Vale la pena comunque di provarci. Magari rivalutando, perché no, alcuni aspetti di quella cultura asburgica, che ha unito per lungo tempo l’Adriatico con il Baltico. Una cultura pre-liberaldemocratica, certo. Però animata dal desiderio di favorire pace e prosperità a popoli diversi, attraverso la condivisione dell’autorità, lo spirito di tolleranza e la propensione al compromesso.