Hanno ripreso quota le pretese territoriali: sono minacce che provengono da nazioni più forti (hanno molti più abitanti, eserciti più agguerriti, con armi nucleari) a danno di entità più deboli. Il ruolo dell’Europa contro questa escalation l’escalation

Nel mondo vi è stato, in questi ultimi anni, un improvviso e non previsto cambio di registro. Hanno ripreso quota le pretese territoriali.La Russia verso la vicina Ucraina, la Repubblica popolare di Cina verso Taiwan, Israele verso la striscia di Gaza, gli Stati Uniti verso Canada, Groenlandia e canale di Panama.
Sono pretese di tipo diverso e si manifestano in modi diversi. La Russia ha invaso con le armi la nazione vicina, che ha fatto parte prima dell’impero russo, poi dell’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche. Pechino ha sempre rivendicato la propria sovranità su Taiwan, come, viceversa, quest’ultima fa rispetto a Pechino. Washington rivendica quasi all’improvviso, ma rispolverando aspettative che risalgono al 1823, una sovranità più ampia nel proprio continente. Israele intende liberarsi di una forza vicina aggressiva e quindi stabilire il proprio dominio su un’altra popolazione e un altro territorio.
Ma sono pretese territoriali con molti elementi comuni. Sono minacce che provengono da nazioni più forti (hanno molti più abitanti, eserciti più agguerriti, con armi nucleari) a danno di entità più deboli.
Violano un principio stabilito dall’articolo 2 dello Statuto dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, secondo il quale i membri dell’Onu devono astenersi dalla minaccia e dall’uso della forza contro l’integrità territoriale di qualsiasi Stato. Muovono non solo da Paesi autoritari, ma anche da antiche e recenti democrazie. Ricordano tante guerre del passato: per citarne solo una, la «Guerra dei cento anni», durata 116 anni tra il 1337 e il 1453, motivata dalla rivendicazione della Corona francese da parte del re d’Inghilterra.
Perché siamo ripiombati in un mondo nel quale non si riconoscono gli ambiti territoriali degli altri Stati? Le cause sono molte, ma una sta certamente nella circostanza che per settanta anni ci si sia cullati nell’ideale kantiano secondo il quale i commerci avrebbero portato la pace. Di qui la globalizzazione innanzitutto dei mercati.
È accaduto nel mondo qualcosa di simile a quello che era successo in Europa: fallito il 30 agosto 1954 il progetto della Comunità europea della difesa, si pensò che bastasse unire i mercati e (in parte) le economie, con l’istituzione, nel 1957, della Comunità economica europea.
Ma l’economia ha costituito una base troppo esile, nel mondo e in Europa, per fermare le pretese territoriali, ora alimentate anche dal sovranismo di nuovi protagonisti, questa volta privati.
L’Unione europea sta correndo ai ripari, ma nel farlo incorre negli stessi errori del passato. Ha avviato un piano di difesa, ma per aiutare gli Stati ad aumentare rapidamente e significativamente le spese in questo settore (sono le parole della presidente della Commissione europea). L’ha fatto facendo ridiventare protagonisti gli Stati, con cinque strumenti: dare uno «spazio fiscale» agli Stati nel Patto di stabilità e di crescita, consentendo loro di indebitarsi per la difesa; prevedere prestiti dell’Unione agli Stati per investimenti per la difesa; consentire agli Stati di trarre risorse dai fondi per la coesione; mobilizzare capitale privato, attraverso l’Unione del risparmio e degli investimenti e la Banca europea degli investimenti. Quindi, distribuendo risorse per fare più forti le difese nazionali, non per ottenere una difesa unica.
Molti illustri europeisti, da Alcide De Gasperi a Helmut Schmidt, a Jean Monnet, hanno sostenuto che l’Europa vive di crisi, nel senso che ogni passo avanti fatto dall’Unione europea è una soluzione ad una crisi. Ma se la soluzione va nella direzione sbagliata, si finisce per sprecare un’utile occasione. L’Unione europea, con i suoi quasi 450 milioni di abitanti e un governo nazionale dotato della deterrenza nucleare, potrebbe far sentire la propria voce in maniera molto più efficace nel mondo, per impedire ed eventualmente combattere nuove pretese territoriali.

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