Fonte: Corriere della Sera
di Federico Fubino
Presidente del Corporate and Investment Banking per Europa, Medio Oriente e Africa di JP Morgan, la maggiore banca americana, Vittorio Grilli è stato dirigente del Tesoro da quando direttore generale era Mario Draghi, ragioniere generale e direttore generale lui stesso con ministri diversi come Giulio Tremonti e Tommaso Padoa-Schioppa, infine ministro dell’Economia nel governo di Mario Monti. Su questioni di finanza italiana, non commenta. Ma nel suo ruolo, continua a seguire l’intero quadro economico e finanziario in Europa e in Italia.
Che impressione ha della risposta europea alla recessione da Covid-19?
«Sono più ottimista sull’Europa di quanto mi sia capitato negli anni scorsi. Senza riconoscerlo in modo esplicito, si è mostrato che la lezione del passato è stata capita”. Cosa intende dire? “Durante la crisi dell’euro si era proceduto lentamente, a volte prendendo decisioni non rilevanti o sbagliate. Tutto ciò aveva lasciato uno strascico di rancore. Adesso la lezione è stata capita; ci si è mossi bene. C’è stato un ritorno dell’intesa franco-tedesca: i leader dei due Paesi hanno preso posizione, anche correndo dei rischi, e ciò ha reso tutto più facile. Nella proposta della Commissione ci sono strumenti utili. Soprattutto, c’è un cambio di paradigma».
Però sottolineano che questa iniziativa è temporanea e una tantum, no?
«Ma permette già di pensare a nuove forme di politiche fiscali a livello dell’Unione Europea e non solo degli Stati nazionali. L’Europa può cambiare marcia in termini di spessore politico delle proprie istituzioni. Del resto questa pandemia rappresenta un cambio di paradigma, in questo contesto non ha senso dare a questo o a quel Paese la responsabilità di ciò che è successo».
Molto è dovuto a un cambiamento di approccio della Germania. Come lo si spiega, secondo lei?
«Nel 2008-2009 la Germania aveva puntato sulle esportazioni per sostenere la crescita economica; vedeva nella domanda proveniente dai mercati asiatici, più che da quelli europei, la dinamo per fare correre la propria macchina industriale. La certezza di questa spinta ora non esiste più”. Intende dire che la Germania avverte più di prima il bisogno di rafforzare l’Europa perché non è certa di poter crescere da sola? “Intendo dire che tutti i Paesi, non solo la Germania, tutelando l’integrità dell’Unione Europea intendono salvaguardare anche il mercato comune».
Dunque l’Italia può tirare un sospiro di sollievo, perché ormai c’è chi garantisce per noi?
«Non direi. Il fatto che adesso ci sia una risposta europea non significa che la questione sia chiusa. Perché il piano europeo possa funzionare è necessario che tutti i Paesi lo sostengano convinti; serve dunque un regime di incentivi e accountability, di responsabilità per il proprio operato, in grado di rassicurare i più scettici. Avere un Recovery Fund non significa che un Paese “prende i soldi e scappa”».
Non c’è nessun jackpot, qui, ma un sistema che dev’essere corretto nella distribuzione delle risorse nei settori e nelle aree geografiche. Nella discussione di questi temi l’Italia dovrà essere brava e attenta. Andrea Guerra, di Lvmh, ha detto che questa recessione può essere come la “safety car” in Formula 1: allinea i Paesi e si riparte tutti con le stesse chance. È così?
«È vero, ma per avvantaggiarsene bisogna correggere i problemi che da sempre rallentano la nostra corsa. Dobbiamo migliorare rispetto al passato. C’è modo di farlo. Pensiamo per esempio al percorso virtuoso compiuto dalla Spagna: nel 1986, al suo ingresso nella Comunità Europea, presentava un notevole divario economico rispetto agli altri Paesi dell’Unione, compresa l’Italia. Negli anni, la Spagna ha saputo riprogrammare l’ economia e pianificare gli investimenti, usando in modo efficiente i fondi strutturali europei. L’Italia, pur essendo nell’Unione da molto più tempo, non è riuscita a fare altrettanto per aiutare lo sviluppo del Sud. Un cambio nel nostro approccio è necessario».
Lei che approccio suggerisce?
«Se c’è stato un cambio di paradigma in Europa, dev’esserci anche in Italia. C’è bisogno di visione e, soprattutto, di capacità di realizzazione economica, È il momento di tradurre le molte buone idee in progetti concreti, da eseguire con velocità ed efficacia. Non dimentichiamoci che il pieno impatto della crisi economica deve ancora materializzarsi: questo deve essere fonte di consapevolezza delle scelte da compiere».
Anche lei non ignora la difficoltà di attuare riforme in Italia…
«Certo, conosco bene le difficoltà che si incontrano quando si prova ad incidere e cambiare davvero le cose. In Italia, il governo centrale spesso non fa uso di atti amministrativi basati sulla legislazione vigente, che avrebbero il merito di essere già a disposizione e collaudati, quindi tempestivi e certi. Si fa invece ampio ricorso a nuove leggi, che inevitabilmente devono essere seguite da nuovi decreti, regolamenti e circolari attuative che complicano e rallentano la macchina burocratica, invece di semplificarla».
Alcuni confrontano questa crisi a una guerra e ciò che aspetta l’Italia a un’epoca di ricostruzione. Condivide?
«Tutto vero, ma c’è una differenza di fondo: in uno scenario postbellico, il capitale fisico è distrutto e servono enormi investimenti e tempo anche solo per consentire la ripresa della produzione. Oggi invece il capitale fisico è rimasto, ma è, in qualche modo, congelato. Bisogna rimettere la linfa dell’economia in circolo. L’economia oggi è fortemente interconnessa a livello globale: è difficile che un’azienda riparta se non riparte la supply chain di cui fa parte. Si tratta di un problema di coordinamento economico, perché tutto deve ripartire insieme. Se un settore o un territorio restano fermi, si creano squilibri o colli di bottiglia che ostacolano l’intero sistema».
La risposta del governo sembra essere un’ondata di interventismo e nazionalizzazioni…
«È un momento in cui c’è bisogno di un intervento pubblico; il mio auspicio è che sia temporaneo. Il settore pubblico entra nel mondo produttivo in certe circostanze, ma appena possibile deve tornare al suo mestiere di regolatore. Non può sostituirsi alle imprese nel medio e lungo termine».
Lei avverte nella classe politica la consapevolezza delle riforme necessarie e dei limiti dello statalismo?
«L’Italia è davanti ad una grande prova. Il cambio di passo deve riguardare l’intero Paese, non solo la classe politica. Questa terribile tragedia ci ha dato modo di riflettere; confido ci dia la forza per cambiare e fare sistema. Economia, politica e società marciano insieme. È una delle lezioni preziose che ci lascia Alberto Alesina, un caro amico che vorrei ricordare».