Candidati e formule per il voto in Basilicata. Ma più che «nuovi contadini» servirebbe un’intesa tra i coltivatori che ci sono
Breve antefatto. A fine aprile si vota per la regione Basilicata.Il centrodestra candiderà il governatore uscente Vito Bardi, apprezzato anche da una parte dell’opposizione renzian/calendiana. Il centrosinistra, dopo averci riflettuto a lungo, ha proposto — su suggerimento, s’è letto, di Roberto Speranza — un nome davvero imprevedibile: Angelo Chiorazzo gran custode della memoria di Giulio Andreotti, amico di Gianni Letta, stimato da papa Francesco. Il M5S non ha gradito. Chiorazzo, anche per non lasciar supporre di avere qualche cadavere nell’armadio, si è impuntato. A questo punto Elly Schlein ha spedito giù in Lucania il duo a cui affida questo genere di grane: Baruffi&Taruffi. Il primo, Davide Baruffi, è un bonario bonacciniano che ne ha viste di tutti i colori ed è avvezzo alle traversie del Pd dell’ultimo decennio. Il secondo (Igor Taruffi), piuttosto sanguigno, è invece arrivato al Pd or ora, proveniente da Rifondazione e da Sinistra italiana. Il duo è stato impegnato in riunioni che avevano la durata minima di sette ore. Al termine di una di queste discussioni, Taruffi è stato apostrofato con una parola davvero brutta che metteva in dubbio le sue doti di comprendonio. Ha lasciato il convivio all’istante, se ne è tornato a Bologna dove ha casa (o a Porretta Terme, la cosa non è del tutto accertata) e ha proseguito gli incontri in videoconferenza.
Alla fine, un nome lo hanno trovato: Domenico Lacerenza (detto Mimmo), un primario di oculistica nato a Barletta trasferitosi da anni in Basilicata anche perché perdutamente innamorato di una signora, Patrizia Pace, che dopo un lungo corteggiamento lo ha accettato in sposo e gli ha dato due figli. Da allora, per senso del dovere e per la sua famiglia, Laceranza ha lavorato a ritmi instancabili. Negli ultimi giorni, però, nessuno si era dato carico di avvisarlo che era in procinto di cambiare vita. E quando si è trovato all’improvviso sotto i riflettori ha manifestato la propria sorpresa per essere stato «catapultato» (parole sue) in questa avventura, ha rivelato di non aver «mai fatto politica», ha chiesto tempo per «buttar giù» uno straccio di programma e infine ha detto: «Spero che non mi facciano fare la campagna elettorale», dal momento che «ho molti impegni in camera operatoria». Si è capito immediatamente che qualcosa non andava per il verso giusto.
Dopodiché altre riunioni (stavolta più brevi) e alla fine il grande luminare è stato indotto a uscire dal «campo largo». Ora si prova con Piero Marrese, presidente della provincia di Matera. Pare.
In realtà, come ha suggerito Pierluigi Castagnetti, una delle pochissime persone sagge rimaste nei dintorni del centrosinistra, sarebbe opportuno che Roberto Speranza accantonasse temporaneamente le proprie ambizioni romane e desse prova di «generosità» andandosi a cimentare nell’impresa lucana. Ma Speranza è come lo scrittore Giovannino Russo descritto in un celebre epigramma di Ennio Flaiano: gli piace tornare nella terra da cui ha avuto i natali, la Basilicata, solo per dar modo ai suoi compaesani di esclamare «che successo, che carriera!» (a Roma). Tornare a vivere laggiù gli darebbe una sensazione di sconfitta. Perché farlo soffrire?
Visto che parliamo di consigli da parte di vecchi saggi, diciamo che non abbiamo ben compreso il senso del suggerimento oracolare di Romano Prodi secondo il quale il «campo largo» della sinistra (cioè, tutti assieme contro la destra) è tuttora fertile, «ma i contadini non sono ancora abbastanza». Strano. Quella formula — la grande ammucchiata antiberlusconiana del «tutti assieme per vincere le elezioni» — è quella che proprio a lui ha provocato grandi dolori, allorché «coltivatori ribelli» portarono al fallimento dei due governi nati dalle sue vittorie elettorali (1996 e 2006). E per sovrapprezzo un centinaio di «maledetti kulaki» gli impedì qualche anno dopo di diventare presidente della Repubblica.
No, caro Prodi, il problema non è quello di trovare altri coltivatori ma che i due capi delle maggiori formazioni dei contadini, Elly Schlein e Giuseppe Conte, trattino, trattino fino a stipulare un patto sensato che sia in grado di reggere di qui alle elezioni politiche.
Dopo aver preso atto di una fondamentale differenza: quella del centrodestra è una combinazione trentennale che sta in piedi anche al di là di una scivolata in Sardegna, di una mattana di Salvini, di qualche nuova inchiesta giudiziaria. A sinistra è invece tutto più complicato: dopo aver mescolato tra di loro i reduci dei partiti della prima Repubblica e averli portati attorno al 20%, i capi della sinistra dovrebbe adesso amalgamare gli elettorati di ciò che resta del Pd con quelli del movimento che fu di Beppe Grillo. E non è un’impresa che si risolve con un gioco di prestigio. Richiede, tanto per cominciare, chiarezza su questioni fondamentali. Ieri su queste pagine Antonio Polito accennava giustamente al tema non irrilevante della collocazione internazionale: tutti perché l’Ucraina alzi bandiera bianca? O per aiutarla, come chiede, a resistere? E ancora. L’altro ieri, a Napoli, Conte marciava alla testa di un corteo che chiedeva il «reddito di cittadinanza regionale» potendo vantare un sostanziale assenso dal più grande nemico dell’«autonomia differenziata», il governatore della Campania Vincenzo De Luca. Visto che c’era, Conte, spalleggiato dal sindaco Gaetano Manfredi, ha chiesto anche un «reddito di cittadinanza europeo».
Altro che «nuovi contadini», trovate un accordo tra i coltivatori che ci sono, fatelo apprezzare agli elettori sono rimasti, fondeteli tra loro e provate a candidare esponenti di buon livello che, quando è necessario, sappiano rinunciare alle dolcezze della vita nella capitale. Al momento, questo è più che sufficiente.