Fonte: La Stampa
di Karima Moual
Nessuna condanna a morte per l’apostata, e libertà di scelta per chi vuole abbracciare altre fedi: così si è espresso per la prima volta il Consiglio superiore degli Ulema in Marocco, aprendo la strada al riformismo dell’Islam
Nessuna condanna a morte per l’apostata e libertà per coloro che dall’Islam vogliono uscire e abbracciare altre fedi. E’ una posizione storica, quella assunta dalla massima rappresentanza religiosa del Marocco, il Consiglio superiore degli Ulema, che continua coraggiosamente ad aprire la strada al riformismo in casa Islam – almeno la propria – senza ombre o ambiguità. Si punta dunque su un livello alto della discussione, anche facendo un passo indietro rispetto al passato. Il Consiglio infatti rigetta una sua precedente fatwa del 2012 secondo la quale i marocchini colpevoli di apostasia avrebbero un unico destino: la morte. Una regola comune per tutti i Paesi musulmani, ma prevista in varie forme dalle norme giuridiche in vigore. In Marocco, per esempio non è contemplata la pena di morte, ma il codice penale parla di detenzione per l’apostata che può arrivare fino a 3 anni.
Una posizione, però, che già all’epoca aveva fatto discutere molto in un Paese che del pluralismo religioso ha fatto il proprio fiore all’occhiello, e che più di altri vi presta attenzione e porta avanti un lavoro immenso per difendere la propria posizione e visione di un «Islam moderato». Il Consiglio degli Ulema dunque, cerca di tracciare una linea chiara su un tema di grande attualità, politicamente e socialmente scomodo e che in futuro si potrebbe presentare come una trappola micidiale perché nel Paese si sono rivelati, senza più filtri, abitanti passati dal sunnismo allo sciismo (si sono aperti solo lo scorso anno i primi centri sciiti) così come al cristianesimo o, addirittura, all’ateismo. Voci che nell’ultimo periodo sono uscite dalla clandestinità sfidando l’ipocrisia di chi li conosce, ma non li vuole riconoscere.
Con la questione “apostasia”, il consiglio degli Ulema affronta un punto da sempre pressoché intoccabile nel dibattuto interno all’Islam, ma difficile da controbattere ufficialmente nella sua interpretazione. Eppure nel Corano non si parla direttamente di apostasia, si rimproverano più volte coloro che rinnegano l’Islam, ma non si prevede per loro alcun castigo terrestre per altrui mano. Certo, Dio promette un grande castigo a chi abbandona la religione, ma un castigo – come nelle altre religioni peraltro – che avverrebbe nell’aldilà e non certamente in Arabia Saudita e per mano di un boia, come vuole l’Islam più oscurantista che trova appoggio in certe interpretazioni della Sunna.
Il nodo infatti è contenuto in un famoso hadith che sentenzia «chi cambia religione uccidetelo». Quanto basta per far giungere la condanna di morte agli apostati sino ai nostri giorni. Non più per gli Ulema del Marocco, che argomentano così la loro nuova fatwa: «La comprensione più accurata, e la più coerente con la legislazione islamica e la Sunna del Profeta, è che l’uccisione dell’apostata significava l’uccisione del traditore del gruppo, l’equivalente di tradimento nel diritto internazionale, gli apostati in quell’epoca rappresentavano i nemici della Umma proprio perché potevano rivelare segreti agli avversari». Insomma, un contesto bellico e ragioni più politiche che religiose alla base della ferma condanna per apostasia.
Tutti riferimenti che, ancora di più, fanno emergere questa fatwa come un passo inedito e sono incoraggianti perché contestualizzano storicamente un fatto, rivalutandolo nel nostro presente. Se l’Islam ortodosso, in tutti gli angoli del mondo, procedesse nell’analisi e nell’interpretazione su questa linea, si farebbero molti passi in avanti di cui i musulmani hanno urgente bisogno, oggi più che mai.