20 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

L’Italia si propone come punto di riferimento per una azione strategica dell’Europa basata su quattro punti che vogliono portare, da parte nostra, a una concreta partnership con la nuova Libia, termine assai impegnativo che Draghi ha usato non a caso


Talvolta la diplomazia è pura testimonianza, ma esistono casi in cui è molto di più: recupero di interessi svaniti, scelta di campo, affermazione di un progetto strategico. La visita che Mario Draghi ha compiuto ieri in Libia rientra nella seconda categoria. Non dev’essere stato facile per un capo del governo italiano andare nella Libia di oggi. La nostra influenza in Tripolitania è diventata influenza turca, anche militare ed economica. E in Cirenaica sono i mercenari russi ad occupare il campo. L’equazione che un tempo ci vedeva al primo posto tra i sostenitori almeno di Tripoli non esiste più, sono Erdogan e Putin che si sono spartiti la Libia e che vorrebbero spartirsi il Mediterraneo.
Una brutta Libia. Una sconfitta umiliante e pericolosa per l’Europa, Italia e Francia in testa. Con gli americani assenti se non compiaciuti, malgrado l’autocritica di Obama secondo cui non aver dato un seguito costruttivo alla caduta e all’uccisione di Gheddafi è stato il suo più grave errore (e più tardi del resto fu Trump ad incoraggiare la sciagurata offensiva di Haftar contro Tripoli, che a conti fatti ha aperto a turchi e russi le porte della Libia). E poi i flussi migratori sempre presenti e pronti a partire in massa verso le nostre coste, perché la permanenza in certi campi di raccolta libici tutt’ora esistenti fa più paura del rischio di perdere la vita.
Ma, ed è qui che entra in gioco la missione di Draghi, in fondo al tunnel del dramma libico si è accesa all’improvviso una debole, una fragile luce. Per furbizia o per sfinimento, o forse perché questa volta la mediazione dell’Onu ha funzionato, la Libia si è dotata il 10 marzo scorso del suo primo governo unitario dalla guerra del 2011. Un governo con il compito di consolidare la tregua d’armi esistente da ottobre (che è poi una tregua tra milizie turche e milizie russe) e di portare il Paese a elezioni generali nel prossimo dicembre.
È un po’ come quando ti passa davanti un treno inaspettato, che credevi non sarebbe mai giunto. Bisogna saltarci sopra. Bisogna tentare di far valere parole autorevoli e mani tese più delle armi, dei droni turchi e dei cacciabombardieri russi. E qui, mentre l’Europa nel suo insieme sembra scuotersi, il prestigio personale di Mario Draghi non poteva andare sprecato. Si è aperto uno spazio per una iniziativa italiana che non sia soltanto difensiva, cerimoniale o sporadica. Il presidente del Consiglio ha parlato con il miliardario imprenditore di Misurata e suo collega Abdelhamid Dbeibah (finalmente lo si può definire così) , ha parlato di ritorno a un livello di scambi commerciali che appartiene al passato, di un forte rilancio nei settori energetici, culturali, sanitari, e beninteso di quel che si può fare insieme per controllare i flussi migratori.
Ma dietro un bollettino tanto scontato c’è molto di più. C’è l’Italia che si propone come punto di riferimento per una azione strategica dell’Europa basata su quattro punti: il mantenimento della tregua d’armi, l’appoggio fattivo al processo politico che si è aperto con il governo unitario, il ritiro delle forze straniere dalla Libia (soltanto auspicato, almeno per ora) e un maggior interessamento dell’amministrazione Biden, in collaborazione con gli europei, alla Libia e al Mediterraneo. Quattro punti che vogliono portare da parte italiana a una concreta partnership con la nuova Libia, termine assai impegnativo che Draghi ha usato non a caso.
Non sarà facile, e questo Draghi e Di Maio che l’ha accompagnato lo sanno. Da est a ovest la stabilità mediterranea resta minacciata in Siria, in Libano, a Cipro e poi, soprattutto, in Libia. Si parla di votare in dicembre, ma non esistono né una legge elettorale né una Costituzione approvata. Dietro al governo unitario covano le tradizionali rivalità, vecchie ambizioni e avidità finanziarie che hanno tenuto banco nell’ultimo decennio di caos e di guerre. Occorre inventare un sistema equo per la distribuzione dei proventi petroliferi. Serve una intesa assai difficile da raggiungere tra le principali tribù del Paese, Fezzan compreso. E il passo fondamentale della creazione di un esercito nazionale come sarà compiuto, chi disarmerà le decine di milizie, alcune potentissime, che sin qui hanno badato ai propri interessi? Sarà un caso che si è trovato un compromesso sul premier ma non sul ministro della Difesa, ruolo che Abdelhamid Dbeibah tenterà di svolgere ad interim?
La strada è in salita, e il minimo che si possa prevedere oggi è che le elezioni di dicembre vengano rinviate. Ma se l’Italia vuole fare sul serio, e di norma Draghi le cose le fa sul serio, allora bisognerà evitare di cadere in un bis dell’autocritica di Obama. Il viaggio di ieri deve avere un seguito di discussione e di progettazione, all’interno come in sede europea e nel dialogo con l’America. Ci vorrà una volontà di ferro sommersi come siamo dalla questione delle vaccinazioni e dalle scadenze per il Recovery plan, ma è arrivato il momento di meritare sul campo quelle definizioni statunitensi di capi-missione per la Libia che negli scorsi anni tanto e tanto astrattamente ci sono piaciute. L’esplorazione che Draghi ha svolto ieri deve essere considerata un primo passo, per noi, per tutta l’Europa e per tutto l’Occidente. Altrimenti il Mediterraneo rischierà di diventare un mare russo-turco, con un bel quartier generale proprio davanti ai nostri occhi.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *