21 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Goffredo Buccini

Il rinnovo del delicato accordo per la gestione dei flussi per i prossimi tre anni mette il governo di fronte alla nuova situazione nel Paese nordafricano


I l governo Conte deve affrontare un passaggio assai delicato nella gestione dei flussi migratori per i prossimi tre anni: il rinnovo del cosiddetto Memorandum libico. Patti disegnati nel febbraio 2017 dall’allora ministro dell’Interno Minniti e firmati dall’allora premier Gentiloni allo scopo di contenere sbarchi dai ritmi sempre più allarmanti. Da una vasta area di opinione, che va dalla sinistra radicale a parte del mondo cattolico, salgono pressioni per la disdetta di quei patti o, almeno, per la loro «profonda modifica» come chiesto ieri alla Camera dei deputati da Laura Boldrini durante il question time con il ministro degli Esteri Di Maio (i patti si intenderebbero rinnovati automaticamente dopodomani, 2 novembre, anche se è plausibile un lavorio sottotraccia ed è annunciata una informativa a Montecitorio della ministra dell’Interno Lamorgese per il 5 o 6 novembre). Occorre premettere che le ragioni ideali di tali pressioni umanitarie sono nobili e, in linea di principio, molto condivisibili.
Basandosi su drammatici rapporti di fonte Onu, questo giornale già quasi un anno fa ha parlato di una «Srebrenica del Mediterraneo» in riferimento al regime di violenze sessuali e torture sistematiche vigente nei campi libici dove i migranti vengono trattenuti. E ha definito una «compagnia di pirati» gli uomini della cosiddetta guardia costiera libica impegnati nel doppio gioco sulla pelle dei profughi, ben prima che esplodesse (grazie a un’inchiesta del collega Nello Scavo di Avvenire) lo scandalo del trafficante di carne umana Bijia in «visita» in Italia.
Con la stessa chiarezza vanno tuttavia ricordati i numeri dell’immigrazione incontrollata prima dell’intervento di Minniti e degli accordi con le tribù libiche: 170 mila sbarchi nel 2014, 153 mila nel 2015, 181 mila nel 2016, 119 mila nel 2017, di cui dodicimila in un solo weekend con una proiezione che, senza accordi, ci avrebbe portato a 250 mila a fine anno; cifre che l’allora titolare pd dell’Interno definì di «emergenza democratica» (la deriva xenofoba successiva parrebbe dargli ampiamente ragione). Dopo quegli accordi gli sbarchi sono scesi a 23 mila nel 2018 (anno del cambio della guardia al Viminale tra Minniti e Matteo Salvini) e la diminuzione prosegue tuttora (sono 9.500 gli arrivi nei primi dieci mesi del 2019).
Senza quegli accordi torneremmo in breve a numeri critici: non a torto Di Maio a Montecitorio parla di possibile «vulnus politico» e di nuove impennate di partenze. Il problema non è affatto «così vince Salvini» ma piuttosto: così perdiamo tutti e la convivenza va a a rotoli. Si provi a immaginare quali effetti potrebbe avere, nell’esacerbato clima sociale italiano, un ritmo di 200 mila sbarchi l’anno (in maggioranza profughi da ricollocare, non migranti attrezzati e necessari a rianimare i circuiti della nostra economia: non è scontato che un flusso si traduca nell’altro).
Nel question time Di Maio ha aperto la porta a «miglioramenti». Ha promesso la convocazione della commissione italo-libica prevista dal trattato, ha parlato di centri di transito, agenzie Onu, controlli nei campi. Fuffa? È probabile. Le commissioni raramente risolvono problemi. E non v’è dubbio che la posizione umanitaria enfatizzi una verità: in Libia si muore nei lager e la guardia costiera libica riporta i profughi in quei lager; l’idea che tutto ciò sia finanziato dall’Italia non può non turbare ciascuno di noi. Per soprammercato, Tripoli lancia in queste ore gravi diktat alle Ong (richieste di una «autorizzazione libica» per salvare i naufraghi). E la strategia del bullo foraggiato per sorvegliare le frontiere europee ha gravi controindicazioni, come l’arroganza del rais turco Erdogan ci insegna.
Dunque? Dal fronte umanitario si suggeriscono naturalmente ottime soluzioni: garanzie di azione per le agenzie Onu, svuotamento dei campi, stop a detenzioni sine die, immancabili corridoi protetti, fine della guerra civile libica… Tutte idee che vanno però supportate con argomenti convincenti in un territorio dominato da bande travestite da istituzioni e infiltrato da jihadisti. E gli argomenti convincenti sono solo due: i soldi e la forza. Tolti i soldi (alla base del memorandum, con tutte le sue ipocrisie), resta la forza. Forse sarà davvero necessario in Libia un intervento di ingerenza umanitaria: ciò che non facemmo per Srebrenica, poi vergognandocene. Coordinato, autorizzato dagli organismi internazionali, ma deciso e di medio periodo (cioè con un piano per il dopo, diversamente da quanto accadde con Gheddafi). Ma di fronte a questa ipotesi, statene certi, gli umanitari leverebbero nuovamente alti lai, perché la forza non può mai essere una opzione per loro, avendo, da europei ben educati, deciso di delegare ad altri (gli Usa finché non arriva un isolazionista come Trump a lasciarci a mollo) quella brutalità che metterebbe in crisi le loro coscienze immacolate.
E dunque qui, di fronte a questa pacifica area di afasia democratica, s’intuiscono alcune ragioni del successo di Salvini. Non ultima tra queste, il destino di un ex ministro, Marco Minniti, che il Pd dovrebbe usare da testimonial se solo volesse tentare di recuperare i famosi consensi persi tra la gente comune e che, invece, è svanito, vittima di un istituto antico quanto la nostra faziosità: l’ostracismo.

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