Fonte: La Stampa
di Fabio Martini
Venerdì a Washington l’incontro fra il presidente americano e i leader dei Paesi europei. Il premier si aspetta altre richieste. E resta fermo sul no a un contingente di terra
Renzi sa già tutto. Sa che Barack Obama vorrebbe chiudere in gloria una stagione presidenziale considerata neo-isolazionista, riconquistando Raqqa e stroncando l’Isis in Libia. E dunque il presidente del Consiglio sa che dopodomani a Washington, in occasione della conferenza sul nucleare, il pressing della Casa Bianca sull’Italia si intensificherà. Renzi sa bene che i francesi e soprattutto gli inglesi sono pronti ad appoggiare Obama in ogni sua istanza e dunque se, come pare, il presidente americano promuoverà a Washington un confronto a tema, le vie di «fuga» rischiano di farsi complicate. Anche perché nelle principali cancellerie della coalizione anti-Califfo si è diffusa la sensazione che l’Isis – in difficoltà in Siria e in Iraq – potrebbe intensificare sia l’attività terroristica in Europa, sia accelerare il «trasloco» verso Sirte. Nel complesso, si sarebbe aperta una «finestra» per assestare al Califfo colpi incisivi.
Ecco perché il presidente del Consiglio, prima di partire per gli Stati Uniti (oggi sarà a Chicago e domani a Boston), ha elaborato una «dottrina» libica che prevede una linea di resistenza all’intervento diretto, ma anche alcune subordinate (dal dispiegarsi di reparti speciali fino all’uso dei Tornado), condizioni e disponibilità da esplicitare soltanto davanti ad un aggravarsi del teatro libico e nel caso in cui l’incontro di venerdì a Washington dovesse rivelarsi un assedio.
Matteo Renzi ha già fatto sapere agli sherpa americani che il governo italiano ritiene azzardato e sbagliato un intervento di terra; che è inimmaginabile il dispiegamento di migliaia di soldati: che «non è il tempo delle forzature» e comunque Roma resta contraria ad un intervento militare. Per il quale, eventualmente. serve un primo, indispensabile step: l’insediamento effettivo di un governo legittimo a Tripoli, pre-condizione ancora in alto mare, visto che l’esecutivo di unità nazionale guidato da Al Serraj si è autonominato, ma anche ieri non è riuscito a ricevere il voto di fiducia del Parlamento rappresentativo delle tante fazioni libiche e non riesce neppure a raggiungere Tripoli, dove l’attuale primo ministro dell’amministrazione della vecchia capitale ha dichiarato lo stato di emergenza per impedire l’insediamento del nuovo governo, che di fatto lo esautorerebbe. E infatti il messaggio di Renzi agli americani è che soltanto «sulla base della richiesta di un governo legittimato, potremmo valutare un impegno, che avrebbe necessità di tutti i passaggi parlamentari».
E qui si apre il varco italiano, che per effetto del pressing di Obama, potrebbe allargarsi. Davanti ad una esplicita richiesta libica e per dare seguito alla solenne richiesta (avanzata all’assemblea generale dell’Onu a settembre), di una «leadership italiana in Libia», il governo è disposto a dispiegare unità speciali all’interno delle quali troverebbero spazio – con modalità da valutare – le eccellenze militari italiane: Tornado e reparti speciali di piccole dimensioni ma di forte impatto operativo. In altre parole, no agli scarponi nel deserto, sì a piccoli nuclei (10-15 unità per volta) capaci di operare bliltz mirati. E, come extrema ratio, sì anche all’utilizzo dei Tornado. Dunque, una decisione italiana non c’è, anche perché la situazione in Libia resta fluida. Da qualche giorno Serraj e il suo Consiglio Presidenziale sono attesi nella capitale per insediarsi, sospinti dal via libera dell’Onu, ma l’amministrazione di Tripoli ha dichiarato lo stato di emergenza per impedire l’insediamento del nuovo governo e sono iniziati i primi scontri, per ora dimostrativi.