19 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Aldo Cazzullo

L’impressione è che il governo italiano non intenda porre le questioni in modo costruttivo nelle apposite sedi bilaterali e sovranazionali, ma preferisca liquidarle in modo sprezzante e aggressivo ai fini del consenso interno

La partita Italia-Resto del Mondo fu giocata all’Olimpico di Roma il 16 dicembre 1998, per celebrare il centenario della Federazione calcio. Il Resto del Mondo schierava un attacco da paura: Zidane, Weah, Batistuta e Ronaldo (non CR7, il Fenomeno). Ma in campo gli assi stranieri passeggiavano, mentre gli azzurri diedero l’anima: vinsero clamorosamente 6 a 2, con tripletta di Chiesa e gol di Inzaghi e Di Francesco; segnò pure Diego Fuser con un destro al volo da fuori area. Stavolta però è difficile che la sfida al Resto del Mondo ingaggiata dal governo gialloverde finisca allo stesso modo. Se non altro perché gli avversari, provocati ogni giorno, la prenderanno più sul serio.

Le prove di forza si fanno quando si è forti. E l’Italia oggi non lo è. Per il debito pubblico troppo alto, la crescita troppo bassa, l’instabilità politica troppo forte. Ma nella strategia dei populisti avere un nemico è fondamentale. Che sia interno — l’Inps, l’Istat, la Banca d’Italia — o meglio ancora esterno: l’Europa, il Fondo monetario, la Francia. Siamo in grado di combattere tutte queste guerre? Davvero sono nell’interesse nazionale? O non rientrano piuttosto nella propaganda, efficace nell’immediato ma in realtà velleitaria?

Con la Francia, sia Di Maio sia Salvini sembrano avere un fatto personale. Più che la Merkel, considerata una leader in declino e quindi addomesticabile, la bestia nera è Macron. Salvini lo attacca tutti i giorni, anche sul piano personale («il signorino»). Di Maio è arrivato a offrire un’alleanza politica – peraltro respinta – ai Gilet Jaunes, un movimento quasi eversivo dove c’è di tutto, pure estremisti di sinistra e di destra che si sono distinti nel rompere gli autovelox, le vetrine e pure la testa di qualche poliziotto. Insomma siamo in guerra virtuale con un Paese la cui storia è intrecciata alla nostra più di qualsiasi altro, dall’unificazione nazionale alle tante partite economiche aperte: Tim e Mediaset, Mediobanca e Generali. Un Paese da cui dobbiamo farci rispettare – cosa che non è sempre riuscita ai governi del passato -, ma con il quale non conviene rompere.

Intendiamoci: la Francia non è esente da colpe. Tutto si può criticare, dai 10 miliardi di euro che appartengono ai Paesi africani ma sono depositati a Parigi alla mancanza di solidarietà nell’accoglienza dei migranti, dall’intervento in Libia all’atteggiamento miope con cui viene contrastata la crescita di Fincantieri. Però l’impressione è che il governo italiano non intenda porre le questioni in modo costruttivo nelle apposite sedi bilaterali e sovranazionali, ma preferisca liquidarle in modo sprezzante e aggressivo ai fini del consenso interno. Siccome gli italiani adorano parlar male della Francia, il governo si adegua. Al confronto, la nomina alla commissione per l’Unesco di Lino Banfi («se Parigi avesse lu meri sarebbe una piccola Beri») pare quasi un gesto di distensione.

I sovranisti replicano che un po’ ovunque il vento spira nelle loro vele, mentre Francia, Germania, Unione europea contano sempre meno. Ed è vero che posizioni neonazionaliste emergono nell’America di Trump e nella Russia di Putin, nell’India di Modi, che quest’anno si avvia a rivincere le elezioni, e nella Cina di Xi, che si fa incoronare a vita; oltre che nella Turchia di Erdogan e nell’Est europeo. Ma i nazionalisti sono tali perché fanno gli interessi delle proprie nazioni, senza curarsi troppo delle altre. Trump impone il gasdotto contestato dai Cinque Stelle perché serve agli obiettivi economici e geopolitici degli Stati Uniti. Polacchi e ungheresi ricevono entusiasti Salvini, però non sono disposti a prendere uno solo dei migranti sbarcati nel nostro Paese.

Non si tratta di andare a Canossa dagli alleati, ma di evitare una sfida contro tutti i nostri vicini, dalla quale non abbiamo nulla da guadagnare tranne qualche like nelle pagine Facebook dei nostri vicepremier, già affollate da irrinunciabili foto della loro vita quotidiana. Alla lunga, ora che non guidano più movimenti di protesta ma partiti di governo, aprire un dialogo serio conviene anche a loro.

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