L’Unione europea ha preso forza ed è cresciuta alla caduta dell’Urss. Ma se tutto ciò che è avvenuto dalla fine dell’Impero a oggi può essere messo in discussione, la Ue stessa è messa in discussione
Tutti presi a difendere la loro indipendenza da Bruxelles o dai vicini, gli Stati europei si sono scoperti dipendenti da Mosca per l’energia, e dagli Stati Uniti per la difesa. Il combinato disposto di queste due dipendenze rende l’Europa impotente di fronte alla crisi ucraina.
Si dice che «l’Europa si fa nelle crisi». È stato così molte volte, dalla Guerra fredda al Covid: le grandi emergenze internazionali hanno spesso rafforzato e rilanciato la solidarietà reciproca. Capiremo presto, a partire dal vertice straordinario dei capi di Stato e di governo di stasera, se anche stavolta sarà così, e ce lo auguriamo. Ma questa crisi appare già adesso diversa, peggiore, potenzialmente distruttiva per il progetto politico e ideale dell’Unione.
Putin sta infatti riscrivendo con i carri armati il nuovo ordine europeo uscito dalla Rivoluzione del 1989 e dalla fine dell’Impero comunista. Quando descrive l’Ucraina né più né meno come un’espressione geografica, «interamente creata dalla Russia», ne cancella la storia di Paese sovrano iniziata proprio nel 1991, l’anno della dissoluzione dell’Urss, con un atto di indipendenza che fu votato dal 90% degli ucraini. Ma se tutto ciò che è avvenuto dalla fine dell’Impero a oggi può essere messo in discussione, l’Unione europea stessa è messa in discussione.
Essa infatti rispose al crollo del Muro di Berlino con l’allargamento a Est, per unificare il continente. Fu un processo costoso e anche generoso, riabbracciare e sostenere i «fratelli» che erano rimasti intrappolati dall’altra parte della Cortina di Ferro dopo la Seconda guerra mondiale.
Generoso perché diede una prospettiva a Paesi la cui economia e la cui società erano state praticamente distrutte dal comunismo. E costoso, perché comportò l’annacquamento del progetto europeo, diluito su un territorio troppo vasto e troppo diverso per poter ancora sperare nella «unione politica» sognata dai fondatori.
E infatti lo vediamo da anni: i valori su cui si fonda l’Unione sono ormai apertamente contestati proprio dai Paesi che per primi si ribellarono al giogo sovietico. La Polonia che fu di Solidarność, l’Ungheria di Imre Nagy, la Cechia di Václav Havel, si sono trasformati nei protagonisti di quella secessione strisciante che va sotto il nome di Gruppo di Visegrád. Si ricrea un po’ alla volta, nei comportamenti e nei principi prima ancora che nella politica, un confine tra l’Europa e l’Est. E non è un caso se alcuni osservatori cominciano a parlare di una «nuova Helsinki», riferendosi all’accordo di sicurezza e cooperazione che fissò i rapporti tra Ovest ed Est in Europa nel 1975, quando il comunismo era ancora ben saldo.
Si farebbe del resto un torto alla strategia di Putin e alla chiarezza con cui l’ha espressa nel suo discorso se davvero credessimo che si sta mangiando a fette la sovranità ucraina solo per impedire che Kiev entri nella Nato: vuole l’Ucraina, vuole un governo vassallo, vuole spostare a Ovest i confini del suo sogno imperiale. Macron e Scholz, i leader di Francia e Germania, si erano del resto affrettati ad andare a Mosca per giurare che l’allargamento dell’Alleanza Atlantica non era all’ordine del giorno, né per oggi né per domani. Lui ha incassato. Ma poi ha fatto lo stesso ciò che intendeva fare, dando agli europei una prova tangibile e cocente della loro marginalità: alla mattina l’Eliseo faceva sapere che Mosca aveva accettato la proposta di un vertice bilaterale tra Putin e Biden, e alla sera il Cremlino riconosceva le due repubbliche del Donbass e dava il via alla escalation militare. In questo modo, paradossalmente, l’autocrate russo ha finito per dar ragione ai falchi americani, che volevano Kiev nella Nato per difenderla, e torto proprio agli europei, che erano invece più comprensivi delle ragioni russe e pronti al compromesso.
Ma se la crisi ucraina sta mettendo a repentaglio l’assetto geopolitico su cui si fonda da trent’anni il progetto dell’Unione, presto metterà alla prova anche la sua compattezza e unità. Putin ha nelle mani il rubinetto del gas, fonte da cui l’Italia — tanto per fare un nome — è «totalmente dipendente», parola del ministro Cingolani. E la cosa straordinaria, che la dice lunga sulla lungimiranza e l’autonomia delle classi dirigenti europee, è che dal 2014, anno dell’invasione della Crimea, l’Europa ha accresciuto, non ridotto, la sua dipendenza energetica dalla Russia. Hanno messo la testa nella bocca dell’orso, ricevendone non di rado pacche sulle spalle, consulenze e prebende, e qualche finanziamento ai partiti sovranisti. Non sarà facile ora per questi stessi leader spiegare alle loro opinioni pubbliche che dovranno pagare un prezzo, in bolletta e in esportazioni, al programma di sanzioni contro Mosca. Se nel 1939 gli europei si domandavano se valesse la pena «morire per Danzica», oggi non sembrano disposti nemmeno a un weekend di austerity per Kiev.
Ecco perché lo scatto di orgoglio, dignità, volontà politica e spirito unitario, cui sono chiamati oggi i capi di governo è davvero vitale per l’idea stessa di Europa. Inesistente militarmente, divisa politicamente, ricattabile economicamente, nel giro di pochi giorni l’Unione rischia altrimenti di perdere anche quello che è stato finora il suo massimo merito storico: aver messo fine alle guerre sul continente.