Fonte: Corriere della Sera
di Antonio Polito
Una ragazza spagnola, nata in Inghilterra, figlia di un cipriota, sposata con un portoghese. Un’architetta romena. Una scolaresca francese. Un turista americano. Un pugile italiano. Tre cittadini greci. Erano tutti su quel marciapiede di Londra. Ci sono momenti in cui è più facile sentirsi affratellati, dovunque si sia nati. Avviene sempre di fronte a un pericolo comune. Allora siamo tutti americani, o siamo tutti Charlie Hebdo, o siamo tutti londinesi, per un giorno. Ma che ne è del più grande esperimento di cooperazione tra popoli diversi che sia mai stato tentato sulla faccia della Terra, cominciato ormai sessant’anni fa a Roma? L’Unione Europea non gode di buona fama, di questi tempi. Eppure il paradosso è che l’Europa, con tutti i suoi problemi, è al centro del dibattito pubblico in tutte le nazioni d’Europa. Qualche giorno fa, il 17 marzo, si è celebrato il compleanno dell’Italia unita. Non si può dire che l’evento abbia suscitato neanche un po’ della passione politica, speriamo non violenta, che scatenerà la celebrazione europea di domani (forse anche perché il maggiore dei partiti neo nazionalisti nostrani in realtà nacque per opporsi all’unità nazionale, e con un programma secessionista, al punto che si chiama ancora oggi Lega Nord).
Per una sorta di eterogenesi dei fini, invece, sia la minaccia esterna (terrorismo, immigrazione) sia la guerra interna scatenata contro Bruxelles dai partiti cosiddetti populisti, stanno creando ciò che era sempre mancato: una sfera pubblica comune, l’abbozzo di un demos europeo, un’arena politica in cui in ogni Paese si discute contemporaneamente delle stesse cose. In tutta Europa si parla di Europa. Forse come mai prima d’ora, quella che era nata come l’idea di pochi illuminati e si era sviluppata come la pratica di troppi burocrati è entrata nei discorsi delle famiglie e nei bar, molto spesso per essere maledetta, ma altrettanto spesso anche per essere invocata. Succedono così cose che mal si accordano con la narrazione sulla «morte dell’Europa». Martin Schulz, da vent’anni nelle istituzioni europee, apparentemente ascrivibile alla classe dei mandarini ben pasciuti e molto odiati di Bruxelles, sta invece avendo in Germania tanto successo da minacciare addirittura la primazia di Angela Merkel. Non meno «europeista» di lui è del resto Emmanuel Macron, anch’egli in corsa per un successo in Francia. Ed è curioso che i più fieri nemici dell’Europa, gente come Marine Le Pen, Nigel Farage, Matteo Salvini, siano in realtà parlamentari europei e non nazionali (nel caso della francese e dell’inglese perché i rispettivi sistemi parlamentari, di cui decantano la superiorità democratica, non ne hanno mai consentito l’elezione nonostante l’evidente consenso di cui godono). In Italia, poi, è interessante notare come il maggior partito di opposizione, il Movimento Cinque Stelle, nella sua corsa al governo abbia silenziosamente espunto la proposta di fuoriuscita dall’Europa, e procrastinato alle calende greche il referendum sull’euro, visto che per farlo bisogna prima cambiare la Costituzione. Qualsiasi forma di autocompiacimento europeista è ovviamente vietata. La Ue vive tuttora un rischio mortale. E dopo il maggio francese (si vota il 7 per l’Eliseo, il secondo turno), potrebbe davvero non esistere più. Ma è l’unico show in città, come direbbero gli inglesi, che le hanno perfino dedicato uno storico referendum.
Che fare, dunque? È probabile che non basteranno altri sessant’anni perché i popoli europei sentano davvero l’Europa come la loro patria. Ma perché si possa anche solo sperare che un giorno i confini interni si dissolvano davvero, con tutto il loro portato storico e «sacro» di sangue, identità, lingua e pregiudizi, bisogna cominciare a sostituirli con nuovi confini esterni che definiscano che cos’è la nuova patria europea. Perché, per definizione, senza confini non c’è patria. Frontiere fisiche, ideali e culturali; aperte sì, ma certe, sicure e presidiate. Forse il danno peggiore arrecato all’europeismo è stato confonderlo con il cosmopolitismo, con una visione irenica e ingenua della convivenza tra popoli in un’epoca di grandi migrazioni e di grandi crisi. E la sensazione di paura e di smarrimento è oggi accentuata dal pericolo terrorista, dalla sfida che ci viene da un altro mondo che vive nelle nostre città. Come ci si può sentire sicuri quando non ci si sente più a casa propria? Pensiamo alle elezioni olandesi: i partiti europeisti hanno prevalso, ma per vincere hanno dovuto alzare un confine contro il governo turco, definire il perimetro identitario della loro nazione. È una piccola prova che la partita è ancora aperta e che niente è perduto; ma anche che salvare il sogno europeo ha un prezzo, richiede coraggio, azione, decisione. Forse i popoli stanno rigettando classi dirigenti europee che considerano imbelli, più che l’idea di Europa. Se così fosse, basterebbe cambiarle.