22 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Angela Panebianco

Se gli elettori si aspettano che le promesse fatte vengano mantenute, almeno in gran parte, nessuno si azzarderebbe a spararle troppo grosse. Ma in una Repubblica fondata sull’immobilismo quale è la nostra, invece, le cose vanno diversamente


Immaginate di assistere a una campagna elettorale che si svolga in una «democrazia governante». In un siffatto contesto ci si aspetta che i vincitori siano in grado di dare vita a un governo sorretto da una maggioranza coesa, entrambi (governo e maggioranza) dominati da un forte capo politico. Nel Parlamento uscito dalle elezioni l’opposizione avrebbe la facoltà di denunciare pubblicamente le eventuali malefatte del governo ma non di condizionare le sue scelte. La pubblica amministrazione sarebbe un docile strumento al servizio dell’esecutivo. Inoltre, primato e autonomia della politica rappresentativa verrebbero rispettati dalle magistrature (di ogni tipo). Queste ultime sarebbero solo i (silenziosi e discreti) «cani da guardia» messi lì per impedire al governo di compiere atti incostituzionali e, in particolare, di minacciare le fondamentali libertà dei cittadini. Si tratterebbe di una democrazia governante perché il vincitore delle elezioni non solo potrebbe prendere decisioni riguardanti i principali nodi della convivenza civile ma (addirittura, niente meno) avrebbe anche la capacità di dare attuazione a quelle decisioni. Senza dover subire i veti, più o meno potenti e più o meno insuperabili, di chiunque. In una tale democrazia la campagna elettorale sarebbe improntata a una certa cautela. E anche a una certa sobrietà.
In quel mondo, infatti, ci si aspetta di essere creduti dagli elettori (ma anche dai governi stranieri, dagli investitori internazionali, eccetera) quando si promette questo o quello. Ci si aspetta di essere creduti, ad esempio, se si promette di tagliare la spesa pubblica e le tasse, di modificare le modalità di allocazione delle risorse pubbliche in certe parti del Paese, di rendere più efficiente la pubblica amministrazione o di restituire la scuola pubblica (se mai se ne fosse allontanata) alla sua ragione sociale, quella di trasmettere, con efficacia, conoscenze. Poiché in tale mondo gli elettori si aspettano che le promesse fatte vengano mantenute, almeno in gran parte, nessuno si azzarderebbe a spararle troppo grosse.
In una Repubblica fondata sull’immobilismo quale è la nostra, invece, le cose vanno diversamente. Tutti sanno che, nella migliore delle ipotesi, nel più roseo degli scenari, dopo le elezioni si formerà (se si formerà) un governo che sarà comunque debolissimo, precariamente sorretto da una maggioranza scollata e divisa, assediato da poteri di veto di ogni tipo. Altro che democrazia governante. Nessuno qui si aspetta davvero che le tante promesse vengano mantenute. Qui le parole in libertà e le promesse da marinaio non costano niente. Sfortunatamente, una Repubblica fondata sull’immobilismo, sulla non-decisione, produce, alla lunga, miscele elettorali pericolose. Sulla scena pubblica si aggirano tre personaggi.
Il primo, che ha meno seguito di tutti, è quello specializzato in «prediche inutili», quello che chiede di introdurre un po’ di razionalità nella campagna elettorale. Si distingue – come una mosca nera su un lenzuolo bianco – perché dice cose ragionevoli e condivisibili dalle persone di buon senso. Cose del tipo: «non bisogna interrompere il cammino delle riforme» oppure «bisogna porre rimedio» a questa o a quella manchevolezza della nostra politica pubblica in questo o quel settore. Chi scrive, essendo un socio dello stesso club, ha molta simpatia per gli specializzati in prediche inutili. Il seguito maggiore però spetta agli altri due personaggi: il demagogo vero e quello finto. Il demagogo vero è colui che sfrutta la rabbia e la frustrazione che una Repubblica fondata sull’immobilismo produce a getto continuo. Poiché parla alla pancia e non al cervello degli arrabbiati, egli non ha alcun bisogno di rendere verosimili le sue promesse, può garantire palingenesi, rigenerazioni totali. Peraltro, benché egli si rivolga alla loro pancia, forse neppure gli arrabbiati, in cuor loro, gli credono davvero. Però lo riconoscono come un veicolo per sfogare la rabbia, per prendere a calci non solo i vituperati politici ma anche, più in generale, ogni autorità (per esempio, quella che discende dalla competenza) e il principio stesso di autorità. Per giunta, quanto più il demagogo affina le sue capacità, tanto più riesce a combinare sapientemente appelli alla rabbia, invocazione della palingenesi e allettanti promesse di ridistribuzione di risorse (ad esempio, il reddito di cittadinanza). Ma non c’è soltanto il demagogo vero. Contro di lui si ergono anche diversi demagoghi finti. Sarebbero (e sono per lo più) politici sufficientemente esperti e competenti, persone che conoscono le durezze e le difficoltà del governare in una «democrazia difficile» come la nostra. Solo che non possono dire la verità. La presenza dei demagoghi veri li obbliga a travestirsi, a mettersi nasi e barbe finte, a impegnarsi in gare di demagogia.
Molti pensano (e qualcuno dice): non c’è da preoccuparsi troppo. In una democrazia non decidente, in una Repubblica fondata sull’immobilismo, condizionata dai poteri di veto, le promesse elettorali contano ben poco. I governi poi dovranno arrabattarsi, subendo i soliti condizionamenti, interni e internazionali, come hanno sempre fatto. Il ragionamento è giusto ma solo fino a un certo punto. In primo luogo perché ci sono ambiti in cui l’immobilismo non paga più, ambiti in cui veti incrociati e poteri di veto provocano solo danni. Frenano, soprattutto, lo sviluppo economico. In secondo luogo perché l’immobilismo, alla lunga, logora la democrazia, riduce pericolosamente le sue riserve di consenso. «Sopravvivere senza governare» era il titolo di un bel libro (l’autore è il politologo Giuseppe Di Palma) di molti anni fa dedicato all’Italia. È stata questa la specialità italiana. Apprezzata, in realtà, dalla maggior parte dei nostri connazionali, che hanno mostrato, in varie occasioni, di essere indisponibili a vivere in una autentica democrazia governante. Tuttavia, navighiamo oggi in acque internazionali assai più turbolente di quelle di un tempo. Non è scontato che si possa ancora galleggiare a lungo usando i vecchi metodi.

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