23 Novembre 2024

di Marco Damilano

«Ho visto le parole d’odio trasformarsi in dittatura. E poi in sterminio. Vorrei non vederle mai più» Colloquio con la senatrice a vita incarcerata in quanto ebrea a 14 anni, e deportata ad Auschwitz-Birkenau

Lo ricorda bene quel 2  giugno 1946, il giorno del referendum istituzionale in cui l’Italia scelse di voltare pagina e di diventare una Repubblica. «Avevo quindici anni e non potevo votare, però ho ancora quella sensazione di gioia collettiva. Qualcosa di nuovo dopo tante tragedie, l’esplosione di felicità per questa Italia ritrovata, in ricostruzione, ottimista, questo mondo intorno a me che festeggiava, anche se io ero personalmente lacerata. Ero una vecchia ragazza che aveva già visto l’indicibile, come lo ha chiamato Primo Levi».
Liliana Segre era stata deportata da Milano al campo di concentramento nazista di Auschwitz e Birkenau il 30 gennaio 1944 con il padre, che non rivide più, qualche mese prima dei nonni, anche loro uccisi al loro arrivo. Numero matricola 75190, il 19 gennaio è stata nominata dal presidente Sergio Mattarella senatrice a vita «per avere illustrato la Patria con altissimi meriti nel campo sociale».
Sembra di vederla nel 1946, provo a immaginarla, doveva avere la stessa età della ragazza che compare nella foto simbolo di quel giorno, quella che alza la prima pagina del giornale a titoli cubitali con la notizia più emozionante: è nata la Repubblica italiana. «Per quello che succedeva attorno a me, con quel che restava di me stessa, ero felice. Nella mia casa, prima della tragedia, mio padre e mio zio erano stati ufficiali nella Prima guerra mondiale. Mio zio fascista, mio padre antifascista. Si amavano molto, discutevano moltissimo. Mentre mio padre è finito ad Auschwitz, mio zio si è salvato, ha vissuto a lungo ma per tutta la vita aveva l’incubo di non essere riuscito a portare giù dal treno per il lager suo padre, mio nonno. E lui che era stato ufficiale dell’esercito regio ed era stato a Caporetto, fascista e monarchico, quel giorno votò per la Repubblica e mi disse: mai mi sarei aspettato di votare felicemente per la Repubblica».
Capelli candidi, portamento fiero, giudizi affilati, nei suoi uffici a Palazzo Giustiniani, gli stessi che furono di Gianni Agnelli, la senatrice Segre è ora una signora della Repubblica, mai come in questo anniversario lacerata, strattonata, contesa, sottoposta ad attacchi interni e esterni, con le massime istituzioni sotto assedio, con un imbarbarimento del linguaggio che è il segnale di un venir meno delle ragioni civili dello stare insieme. Gruppi contrapposti convocati a Roma. Il Quirinale, la sede della presidenza, la suprema garanzia costituzionale, assediato dalle critiche (legittime) e dagli insulti (vergognosi). Il capo dello Stato minacciato, offeso perfino nell’affetto più caro, il fratello Piersanti ucciso dalla mafia, con i messaggi ripugnanti apparsi sui social. Il silenzio di partiti, sindacati, intellettuali che in passato sono scesi in piazza per difendere le istituzioni repubblicane e che in questa occasione balbettano. E l’esigenza sempre più urgente di trovare figure che sappiano parlare a tutto il Paese stremato e allibito dal balletto dei politici sulla crisi, simmetrico a quello degli speculatori sui mercati.
«Oggi sono molto rattristata per la mia Italia, paese amato, alle soglie di qualche sorpresa, di situazioni che mi sarei aspettata di non vedere più», racconta Liliana Segre. «Abbiamo avuto tante crisi politiche in questi decenni, formule di ogni tipo, ma quello che sta accadendo in questi giorni è totalmente inaspettato. La Repubblica è la cosa di tutti, ma oggi rischia di essere strattonata da una parte e dall’altra, lo vediamo tutti, sono preoccupata. C’è una tristezza di fondo, nelle polemiche, nelle speculazioni, anche nei giudizi della stampa internazionale, così lontana dalla bellezza dell’Italia e da un popolo che non si merita questa severità dei giudizio».
Sono tanti i motivi di preoccupazione e di amarezza per la senatrice Segre, nominata a Parlamento sciolto, accolta tra gli applausi a Palazzo Madama durante la prima seduta, il 23 marzo. «Conosco i miei colleghi senatori a vita, sono stata troppo poco in aula per farmi un giudizio degli altri, non sono una vecchia volpe. Quando sono stata nominata ho detto al presidente Mattarella che sono sempre una bambina: mi hanno chiuso la porta della scuola e ottant’anni dopo mi hanno aperto quella del Senato».
Che pensa degli attacchi contro l’inquilino del Quirinale, compresa la richiesta di impeachment avanzata da Giorgia Meloni e da Luigi Di Maio? «Impeachment è una parola che non esiste nell’ordinamento italiano, chi l’ha sbandierata poteva almeno informarsi. Quando ho conosciuto Mattarella e abbiamo parlato eravamo tutti e due con i capelli bianchi, alle spalle anche lui ha avuto un dramma che ti segna la vita, ci siamo ritrovati come un fratello e una sorella. È il presidente della Repubblica, ma io lo considero come mio fratello, come una persona che fa parte della mia famiglia. Ho letto anch’io cosa hanno scritto in rete, quando gli hanno augurato la fine di suo fratello mi son venute in mente le minacce contro di me da bambina, rispondevo al telefono e una voce mi chiedeva: perché non muori? Perché non morite? Questi cattivi sentimenti ci sono sempre stati, il web li amplifica, ma non è solo una questione di mezzi di espressione.
Ci sono i tempi che consentono a queste persone di comportarsi così. C’è stato un tempo dopo la guerra, dopo l’orrore di milioni di morti, che queste parole e questi comportamenti sono sembrati sparire. Sono arrivate altre esigenze, la gente ha pensato all’arricchirsi, a farsi notare. La bellezza, il consumismo, il successo, essere qualcuno, sono diventati idoli. Poi gli idoli cadono e nel vuoto sono tornate parole antiche».
Tempi cupi. Tempi di divisione che anticipano la futura campagna elettorale, quando verrà. Cosa la preoccupa di più di questi tempi, del ritorno del passato? «Ho la paura della perdita della democrazia, perché io so cos’è la non democrazia. La democrazia si perde pian piano, nell’indifferenza generale, perché fa comodo non schierarsi, e c’è chi grida più forte e tutti dicono: ci pensa lui».
La democrazia svanisce progressivamente, per slittamenti successivi. Per le parole che non vogliono più dire nulla, che risuonano a vuoto. E per i leader che aizzano anziché placare, dirigenti che non dirigono ma seguono. Una delle parole che ritornano è popolo. Si ripete: il popolo, lo vuole il popolo, ci sono i nemici del popolo, il presidente incaricato Giuseppe Conte si era proposto come avvocato del popolo. Ma che cos’è il popolo, chi può dire parlo a nome del popolo? E si può contrapporre alle leggi, ai limiti della Costituzione? «Quando il popolo ha votato bisogna rispettare l’esito elettorale, anche se può non piacere», risponde la senatrice Segre. «Poi c’è la coscienza di ognuno. E c’è la Costituzione, un lavoro grandissimo, i padri non erano improvvisati». Come si reagisce? «Io ho un’idea fissa. Chi entra nel memoriale della Shoah trova scritta una parola: indifferenza. Da senatrice ho depositato un disegno di legge per istituire una commissione parlamentare bicamerale di monitoraggio e di controllo sugli “hate speech”, i discorsi d’odio. Un invito che il Consiglio d’Europa ha fatto ai 47 Stati membri, il nostro sarebbe il primo caso. Le parole d’odio sono l’anticamera della fine della democrazia. L’imbarbarimento del linguaggio è arrivato a livelli intollerabili. In questi giorni si è scritto di un mercato di divise da deportati di Dachau, che parole si possono trovare?»
La Repubblica divide, per molti ha deluso le speranze 
di settantadue anni fa. Per certi versi comandano ancora i luigini di Carlo Levi in “L’orologio”, le caste degli inamovibili: «La grande maggioranza della sterminata, informe, ameboide piccola borghesia, con tutte le sue specie, sottospecie e varianti, con tutte le sue miserie, i suoi complessi d’inferiorità, i suoi moralismi e immoralismi, e ambizioni sbagliate, e idolatriche paure. Sono quelli che dipendono e comandano; e amano e odiano le gerarchie, e servono e imperano». È la loro presenza a scatenare la reazione dei populismi? «Ero molto giovane quando ho subito l’orrore, per ritrovare una speranza di futuro è stato importantissimo l’incontro con mio marito», riflette la senatrice Segre. «Era fiero di aver combattuto per la democrazia che stava nascendo, ma anno dopo anno mi ossessionava con la sua delusione per tutti quelli che erano morti per far nascere questo Stato, per chi aveva dato la vita per un’Italia migliore. Delusioni per gli scandali, le ruberie, il distacco dalle persone». Oggi in tanti votano più per delusione o per rabbia che per speranza. «Ha ragione, ma per votare la speranza devono esserci i motivi e tanti, evidentemente, motivi non ne trovano. In democrazia l’elettorato va rispettato e non va mai dimenticato che il mondo è degli indifferenti, sono loro che decidono chi vince e chi perde. La mia speranza è che un giorno possano nascere gli Stati Uniti d’Europa, ora appare un’utopia, lo abbiamo visto sulla questione dei migranti, in cui ogni Stato ha dato spazio al suo egoismo nazionale. Io la speranza ce l’ho, ho sempre scelto la vita, ho conosciuto nella mia vita tanti affetti, un lungo amore». E amare la Repubblica? Che significa oggi, senatrice Liliana Segre? «Amare la Repubblica significa attuare la Costituzione». E difenderla dai fantasmi del passato. Questi tempi nuovi che ci sono dati da vivere, simili a quelli antichi.

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