21 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

Immigrati Grecia

di Angelo Panebianco

Non c’è nessuna speranza di pacificare la zona se non si mette da parte l’idea di ricostituire un mondo di fatto dissolto, utilizzando la vecchia carta geopolitica che definiva Stati ormai spariti

Il tempo non è ancora arrivato. Anzi, questo sembra addirittura il momento peggiore anche solo per parlarne. Però è un fatto che non si riuscirà mai a ridare un po’ di stabilità al Medio Oriente senza una conferenza di pace (o qualcosa di simile) che ridefinisca i confini fra i vari gruppi territoriali locali, che faccia nascere nuovi Stati al posto di quelli, ormai finiti, disegnati dalle potenze occidentali nel XX secolo. Mentre Assad e i suoi alleati russi distruggono Aleppo e contemporaneamente, nel nord dell’ex Iraq, è in corso una cruciale battaglia per strappare la città di Mosul allo Stato islamico, e mentre, per sovrappiù, le due grandi potenze , Stati Uniti e Russia, sono impegnate nel più pericoloso duello che si ricordi dopo la crisi missilistica del 1962, non è ancora il momento evidentemente. Ma , ciò nonostante, resta vero quanto certi esperti dell’area dicono da tempo apertamente e i diplomatici ripetono nelle conversazioni private: non c’è nessuna speranza di pacificare il Medio Oriente se non si mette da parte la pericolosa illusione di poter ricostituire un mondo ormai dissolto, di potere ancora utilizzare la vecchia carta geo- politica in cui figuravano entità statali denominate «Siria», «Iraq», «Yemen», forse anche «Libia».

Prendiamo il caso dello Stato islamico. Perché è nato e perché esiste ancora? La risposta ufficiale è che ha goduto (e gode tuttora) degli appoggi di altri Stati dell’area. Ma è una verità solo parziale. La principale ragione dell’esistenza dello Stato Islamico è che i sunniti ex iracheni non vogliono essere dominati da una maggioranza sciita (come accadrebbe se il vecchio Iraq venisse ricostituito) e i sunniti ex siriani non vogliono tornare sotto il tallone della minoranza alawita (come nella vecchia Siria). Lo Stato Islamico verrà rapidamente sconfitto nel momento in cui ai sunniti di Iraq e di Siria sarà consentito di dare vita a uno Stato sunnita unificato. Ma perché si faccia strada un tale progetto occorre che la comunità internazionale accetti l’idea di una definitiva scomparsa dei vecchi Stati. Sia gli alawiti della ex Siria (al seguito di Assad) sia gli sciiti dell’ex Iraq dovranno convincersi dell’impossibilità di ritornare allo status quo ante. Ma potranno farlo, sospendendo finalmente le ostilità, solo se potranno a loro volta contare su confini sicuri garantiti dalle grandi potenze. Poi c’è la questione curda, forse la più intrattabile a causa dell’atteggiamento turco (e non soltanto turco) verso i curdi. È dai tempi della caduta dell’impero ottomano che esiste una questione nazionale curda aperta e irrisolta. Ai turchi dovranno essere date, certamente, compensazioni varie ma ciò che non trovò soluzione, uno sbocco accettabile, al termine della Prima guerra mondiale, dovrà trovarlo (a beneficio dei curdi ma anche della stabilizzazione dell’area) un secolo dopo.

Poi c’è la questione dello Yemen. Anche lì non è pensabile una pace senza una spartizione territoriale e un divorzio consensuale fra le componenti sunnita e sciita (nella variante locale: gli Huthi). C’è infine il caso libico. Oggi la Libia è uno Stato fallito. Non c’è possibilità di ricomposizione che non passi per l’instaurazione di un sistema di garanzie reciproche, soddisfacenti per i principali gruppi territoriali e tribali coinvolti. Gli sforzi della diplomazia internazionale, Italia in testa, per ripristinare l’unità libica sono lodevoli, ma vale anche qui ciò che vale nel caso dello Stato Islamico: è il grosso delle persone coinvolte (le persone comuni, con i loro legami tribali e territoriali, non solo certe frazioni delle élite nazionali) che devono essere convinte della validità e della convenienza delle soluzioni proposte.

Ciò serve a ricordare il fatto che le grandi potenze, e gli altri Stati al loro seguito (la cosiddetta «comunità internazionale»), possono essere i promotori di accordi di pace, possono blandire gli attori locali, possono allettarli con promesse di aiuti o minacciarli di sanzioni, possono anche proporsi come i futuri garanti esterni degli accordi stipulati, ma non possono «imporre» nessuna pace sulla testa dei locali, non hanno il potere di calpestarne la volontà. Alla fine, è sempre la convenienza di questi ultimi che decide del successo o del fallimento delle trattative. La ragione per cui il Medio Oriente è forse (quasi) pronto per soluzioni negoziate guidate da una giusta mescolanza di realismo, immaginazione e intelligenza, è che ormai da troppo i combattimenti si trascinano senza che coloro che combattono, da una parte o dall’altra, possano ancora illudersi che la vittoria sia certa e a portata di mano.

Fermo restando che saranno comunque gli attori locali ad avere l’ultima parola, tocca alle grandi potenze la prima mossa, tocca a loro fare proposte e offrire garanzie. In concreto, il piano di una conferenza di pace che ridisegni i confini politici in Medio Oriente può marciare solo se è voluto e sostenuto dagli Stati Uniti, ossia dalla prossima Amministrazione americana. Se il futuro presidente fosse Trump niente da fare. Cercherebbe un accordo purchessia con Putin sulla pelle dell’Europa, e anche del Medio Oriente. I piani lungimiranti non sono alla sua portata, richiedono statisti. Non è sicuro che Hillary Clinton lo sia, però ha l’esperienza che serve. I russi (che oggi fanno apertamente campagna elettorale per Trump) sono dei realisti. Con un «falco» antirusso come Clinton alla Casa Bianca, potrebbero calmarsi, ridurre l’attuale eccesso di aggressività. Per paradosso, proprio un presidente tutt’altro che compiacente verso i russi potrebbe allettarli riconoscendo loro lo status internazionale che essi vogliono. Il che accadrebbe se alla Russia venisse offerto di impegnarsi, al fianco degli Stati Uniti, per favorire i futuri accordi di pace in Medio Oriente, per aiutare le forze locali coinvolte nei conflitti a ridisegnarne la mappa geopolitica. Non ci sarà pace in quei luoghi (né riduzione della minaccia terroristica in Europa) fin quando i vecchi confini statali, decisi e concordati fra le potenze occidentali dopo il collasso dell’impero ottomano, non verranno consensualmente abbandonati.

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