Nel decreto Sostegni bis che il governo si avvia ad approvare la prossima settimana, ci sono 38 miliardi da spendere per sostenere famiglie e imprese. Fanno parte di quei 40 miliardi di deficit aggiuntivo che hanno già ricevuto il via libera dal Parlamento. Oltre la metà dei 38 miliardi, tra i 20 e i 22, andrà al mondo produttivo, alle aziende e non solo. Un fiume di denaro. Ma perché esso produca effetti duraturi sull’economia deve trasformarsi in investimenti e consumi. Sta accadendo? Meno di quanto ci si sarebbe potuto attendere. Che le misure colgano nel segno è fondamentale sempre, ancor di più durante una crisi profonda come questa. Lo choc è stato forte ed è tutt’altro che passato. Lo dimostra l’ancora elevatissima quota di liquidità che viene mantenuta sui conti correnti bancari. Mal contati si tratta di circa 1.900 miliardi. Se riuscissimo a mobilitarne solo il 10% raggiungeremmo la stessa cifra che, tra risorse a fondo perduto e debiti, l’Europa si appresta a girarci sotto forma di Recovery plan. Tra soldi sui conti correnti e sussidi che il governo ha messo a disposizione, si dovrebbe assistere a un sussulto dell’economia. Tutti gli istituti di ricerca giudicano le prospettive del Paese buone. Ma è come se il rimbalzo fosse meno potente di quanto atteso: assomiglia poco a una robusta ripresa.
Si dice che la manifattura abbia retto. In realtà ad aprile, secondo l’indagine flash condotta da Confindustria, c’è stata persino una leggera frenata della produzione. E comunque l’industria in senso stretto pesa sul Prodotto interno lordo per meno del 20% (poco più di 320 miliardi). I servizi che sono l’altra parte importante dell’attività economica, restano ancora in frenata. Rivelatore è l’indice PMI, quello che tiene conto degli acquisti dei manager delle aziende e che quando è superiore a 50 indica una fase di ripresa mentre sotto segnala recessione. Per l’industria a marzo era pari a 59,8, per i servizi era addirittura in calo a 48,6. In Italia probabilmente tendiamo a sottovalutare un settore come quello del turismo. Essere rimasti chiusi, giustamente per combattere la prima emergenza che è quella sanitaria, ha avuto effetti sulla fiducia ben più profondi. E bene ha fatto il premier a rimetterlo sotto i riflettori con il pass verde. Seppur pesi solo per il 13% del Pil, è evidente che ha un indotto molto più esteso.
Come superare il paradosso di un’offerta di sostegni a fondo perduto e di credito, di liquidità così elevata a fronte quindi di una domanda stagnante? È necessario un doppio binario. Il primo quello della fiducia nel futuro per spingere chi può a tornare a consumare e a investire. Al governo e alla maggioranza soprattutto andrebbe chiesto perché di quei 40 miliardi quasi nulla andrà ai ragazzi che hanno perduto giorni e giorni di scuola. Sono il nostro domani e non spendere per loro non dà certo un segnale di fiducia. L’altra a strada non può che essere l’attivare tutti quegli investimenti pubblici che diano anche l’evidente e concreto segnale al Paese che l’economia sta ripartendo. L’Italia è come se continuasse a essere efficace sul fronte della spesa corrente (dagli stipendi ai bonus, ai denari per l’assistenza), ma assolutamente deficitaria sul fronte della spesa per gli investimenti. Il governo ne sembra consapevole. «Nel ventennio 1999-2019 gli investimenti totali in Italia sono cresciuti del 66% a fronte del 118% nella zona euro», ha scritto Mario Draghi nell’introduzione al Piano di resilienza e rilancio. È persino diminuita la quota di investimenti pubblici passata «dal 14,5% nel 1999 al 12,7 del 2019», si legge ancora.
Ma il quesito di fondo è: perché dovrebbero ripartire adesso? È noto che ci siano già stanziati tra i 50 e i 60 miliardi per investimenti pubblici che sinora non sono stati spesi. A questi si aggiungeranno quelli del Piano di rilancio e resilienza. Cosa dovrebbe garantirci che finalmente verranno attivati? Il perché della mancata spesa virtuosa dello Stato sta tutta in quelle norme scoordinate, accatastate l’una sull’altra che mettono in conflitto anche i vari livelli dell’amministrazione da quella centrale a quella locale e regionale. Sta in quella vischiosità della pubblica amministrazione per la quale nessuno si sente e vuole sentirsi responsabile di qualsiasi atto possa mettere in difficoltà in futuro la persona che si intesta la decisione. Il ministro Brunetta che assieme al suo collega Giovannini sta lavorando al provvedimento sulle semplificazioni, ha anticipato che le misure sono pronte. A meta mese dovranno essere annunciate.
Quello sarà il vero passaggio decisivo. Si dovrà riuscire a superare la cornice ideale perversa che in passato ci ha portati a occuparci di prevenire reati, logiche distorsive e via dicendo, invece che essere concentrati sul risultato, sulla velocizzazione delle procedure. In ossequio alla cultura del sospetto ci si è ingolfati in inefficaci e molteplici controlli preventivi ai quali far seguire paralizzanti controlli a posteriori condotti da innumerevoli Autorità perlopiù in concorrenza tra loro. Si è tentato in tutti i modi di evitare qualsiasi «discrezionalità», mentre prendere decisioni è esattamente l’assumersi la responsabilità di una scelta piuttosto che un’altra. Il premier Draghi ha avuto il coraggio di indicare i nemici del Paese nella «corruzione, la stupidità e gli interessi di parte». Batterli oggi significa però riuscire a far partire quella spesa per gli investimenti che faccia capire agli italiani concretamente che il Paese, il governo ha iniziato a scegliere e ha imboccato la strada dei fatti e non solo quella dei buoni propositi. Un formidabile antidoto anche per la sfiducia.