Fonte: Corriere della Sera
di Massimo Franco
Se lo «schema abruzzese» dovesse essere confermato alle Europee, il «non cambia nulla», giurato dai governanti, diventerà una frase superata dalla realtà
È vero che il test riguardava un numero di elettori troppo esiguo per conferirgli lo status di segnale nazionale. La tendenza a un raddoppio dei voti della Lega e di un centrodestra in ascesa, tuttavia, appare confermata; così come un netto ridimensionamento del potere d’attrazione del Movimento 5 Stelle, che dimezza i consensi rispetto alle Politiche del 4 marzo 2018. Forse la vera sorpresa è la resistenza della sinistra, che perde l’Abruzzo ma ottiene, tra le varie liste, un terzo dei consensi.Dal governo M5S-Lega arriva un frettoloso «non cambia nulla», in realtà tutto da verificare di qui alle Europee.
Abilmente, lo dichiara Matteo Salvini, vincitore di questa tornata, negando qualunque richiesta di rimpasto o rivendicazione ministeriale. D’altronde, perché dovrebbe? La vera posta, per lui, saranno le elezioni di fine maggio. E se l’andamento del «contratto di governo» con il vicepremier Luigi Di Maio continuerà a essere questo, non si capisce il suo interesse a spezzare l’incantesimo. Passo dopo passo, sta ricalibrando i rapporti di forza nel centrodestra, doppiando Silvio Berlusconi senza però riuscire a neutralizzarlo come forse sperava.
In questo modo, consolida il profilo della Lega come partito nazionale, senza risentire, almeno per il momento, del sostegno dato al reddito di cittadinanza grillino; e incassando i proventi della sua aggressività controversa in materia di immigrazione. È sempre più l’unico vero leader del centrodestra, e questo cambia la storia e il profilo di questo schieramento. Ma inserisce un grosso punto interrogativo per i rapporti inediti e asimmetrici che si creano con Forza Italia. Fino a un anno fa, il fronte cosiddetto moderato era stato a guida berlusconiana. Non esserlo più ne rimette in discussione la stessa esistenza.
Gli attacchi di FI al «contratto» con i Cinque Stelle non sono solo mirati a chiedere a Salvini di tornare nella sua orbita politica naturale: quella che domenica ha vinto in Abruzzo. Sono anche un modo per metterlo in difficoltà e sottolineare le sue contraddizioni. Il problema è che queste contraddizioni, alla Lega e al suo leader rendono, al contrario del resto del centrodestra. E lo fanno vincere nella sua totalità. Non è facile, dunque, che a breve termine Salvini disdica il patto di potere con i seguaci di Beppe Grillo. Al massimo, c’è da aspettarsi che sia lui a costringere i Cinque stelle a farlo, con una sfilza di forzature che per ora provocano solo sterili ritorsioni e falli di reazione.
Il governo giallo-verde accentua le divisioni e le contraddizioni nelle file del Movimento, che oscilla tra governismo e estremismo; e paga un prezzo alto all’incapacità di esprimere un’identità compiuta e di percepirsi e accreditarsi come classe dirigente. Le parole d’ordine antieuropee, le strizzate d’occhio ai «gilet gialli» francesi, gli strappi sul Venezuela, e l’alone di caos che circonda le loro misure-simbolo, non hanno giovato ai Cinque Stelle. Li mostrano incapaci di uscire dal bozzolo rassicurante di oppositori ai quali capita quasi incidentalmente di occupare Palazzo Chigi e una serie di ministeri. E li mostra spaventati da qualunque «piazza» che accenni a fare loro concorrenza.
Per questo, a uscire ridimensionato dal voto locale di domenica non è il solo Di Maio. Anche Alessandro Di Battista, il presunto catalizzatore di voti richiamato dal suo periodo sabbatico guatemalteco, non sembra aver portato né chiarezza né consensi. Non esiste più una «rendita estremistica», di cui Di Battista è l’emblema. Pensare che tornando alle origini anti-tutto il Movimento possa recuperare smalto e fascino, e mantenere un terzo dei voti, si sta rivelando un’illusione. Probabilmente, il successo dello scorso anno è dipeso da una miscela irripetibile di radicalismo, possibilismo europeista e profilo «governativo». Ma in otto mesi, la miscela è stata svuotata e sbilanciata dal rapporto con la Lega; e dall’incapacità di legittimarsi come forza governativa.
In Abruzzo molti dei voti persi si sono riversati nell’imbuto dell’astensionismo o, in parte,sono tornati al Pd. È sempre più evidente che la domanda politica è superiore all’offerta, altrimenti non si spiegherebbe una partecipazione appena superiore al 50 per cento: il 22 in meno rispetto alle Politiche. Se lo «schema abruzzese» dovesse essere confermato alle Europee, il «non cambia nulla» giurato all’unisono da Salvini, Di Maio e dal premier Giuseppe Conte diventerà una frase superata dalla realtà. Va registrata, come piccolo indizio, la cautela che di colpo il capo leghista mostra verso Bankitalia, attaccata pretestuosamente a testa bassa dal M5S e da alcuni suoi compagni di partito. Dunque, non cambia nulla in attesa che cambino molte cose. Per capire in quale direzione, basterà aspettare qualche settimana.