22 Novembre 2024

I protagonisti dell’orrore sembrano interessati a causare sofferenza, più che a comprenderla. Sarebbe più onesto limitarsi a dire, come papa Francesco: la guerra è una sconfitta per tutti

Gli studenti palestinesi di una scuola di Nablus, in Cisgiordania, sono andati in visita al campo di sterminio di Auschwitz. Quando qualcuno ha chiesto perché lo avessero fatto, l’insegnante di filosofia ha risposto: «Restiamo nazionalisti, ma siamo tornati più umani». Sembra di risentire Carlo Maria Martini, che amava quei luoghi: «Ci sarà la pace quando capiremo il dolore degli altri». Questa storia risplende, come una piccola luce nel buio.
L’orrore avvolge la Terra Santa — terra insanguinata, violata, oltraggiata — e tutto lascia pensare che non finirà presto: poveri figli di Abramo. Settimane, mesi, anni, che vanno ad aggiungersi a tanti altri anni, a qualche illusione e infinite delusioni. I protagonisti sembrano interessati a infliggere dolore, più che a comprenderlo.
Finge di non capire Hamas, guidato da una cupola di miliardari fanatici in esilio, intrisi di odio per gli ebrei, decisi a usare due milioni di palestinesi come carne da macello. Non riesce a capire Israele: sconvolto da quanto è accaduto nel «sabato nero», ha scelto una risposta spietata. Letteralmente: senza pietà. Uccidere i bambini in una guerra è un affronto al Dio di tutti.
In Israele i cristiani sono 160mila. In Cisgiordania e a Gerusalemme, circa 80mila. Nella Striscia di Gaza, il Natale scorso, erano 1.017, di cui 135 cattolici. Il bombardamento che ha colpito la chiesa di San Porfirio, il 19 ottobre, ne ha uccisi 17: ne rimangono 1.000. Con la mattanza di Hamas, non c’entrano. Non hanno colpe, eppure soffrono. Capiscono il dolore degli altri. Ma sono pochi, spaventati, soli.
>È sembrato strano, e non ha aiutato, che i Patriarchi e i Capi delle Chiese in Gerusalemme nel comunicato del 7 ottobre non siano riusciti a nominare Hamas, responsabile di quell’azione demoniaca: la prudenza diplomatica non giustifica l’omissione. Ma, sul terreno, i cristiani si sono mossi. Gabriel Romanelli, il parroco di Gaza, ha aperto le porte a chi ha perso la casa nei bombardamenti, anche ai musulmani. «Da noi le famiglie possono trovare un po’ di energia elettrica garantita dai pannelli solari, dono prezioso della Chiesa italiana, e dell’acqua che attingiamo da un vecchio pozzo dentro la scuola». Di nuovo, luci nel buio: ma il buio resta.
La difficoltà di capire il dolore degli altri non riguarda solo chi si trova dentro il conflitto. Riguarda tutti noi, ed è perfino più grave perché non ha neppure l’attenuante della disperazione. Non parliamo solo dell’antisemitismo montante, che è sotto gli occhi di chiunque voglia vedere. Parliamo del livello sconfortante del dibattito pubblico in Italia.
Faticano, alcuni amici di Israele, ad ammettere che in questa guerra stanno morendo molti innocenti: un silenzio moralmente inaccettabile. Faticano ancora di più coloro che, in Italia, hanno sempre sostenuto la causa palestinese. Non trovano il coraggio di condannare una dirigenza politica disastrosa in Cisgiordania, e terroristica a Gaza. Non capiscono che stanno offrendo una sponda agli antisemiti. Non trovano le parole per esprimere, al di là di qualche frase di rito, l’orrore per quanto è accaduto il 7 ottobre. Orrore indicibile, dirà qualcuno. Vero: ma bisogna provare a pronunciarlo.
Certi silenzi — a sinistra, soprattutto — non sono dovuti soltanto a ragioni di schieramento, ai ricordi di un’antica militanza, a una conoscenza superficiale della storia, a un’ignoranza dei luoghi. Alla base, anche qui, c’è l’incapacità di capire il dolore degli altri.
In giornate come queste, se il cuore non aiuta, la mente si perde. Diventa difficile pensare, faticoso comprendere, impossibile giudicare. A quel punto ci si muove con il vento, che soffia da ogni direzione: basta un’opinione televisiva, un’immagine in rete, una notizia sui social e ci si lancia in accuse sballate e difese grottesche. Sarebbe più onesto limitarsi a dire, come papa Francesco: la guerra è una sconfitta per tutti.
Se ci abituiamo all’orrore, finiremo per non provarlo più. Il dolore non è dispiacere. È molto più serio, più grave, più istruttivo.

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