Fonte: Corriere della Sera
di Paolo Pietri
Israele, Gaza e noi: anche se dovesse tornare la calma, il rischio è che, una volta riaggiustati i cocci, protagonisti e comprimari si dedichino alla loro attività principale: la ricerca della non-soluzione
Il grande, angosciante buio che circonda israeliani e palestinesi è il segno della totale assenza di futuro. In una regione, tanto più, dove è invece così presente la Storia. Ma sembra che nessuno voglia ascoltarne le lezioni. Non è esagerato dire che quanto sta accadendo in questi giorni — una ferita lancinante nelle nostre coscienze — rappresenti una sconfitta del mondo nel suo complesso. Anche se dovesse tornare la calma (come ci auguriamo, sia nelle città dello Stato ebraico colpite dai missili di Hamas targati Teheran, sia nella striscia di Gaza) il rischio è che, una volta riaggiustati i cocci, protagonisti e comprimari si dedichino alla loro attività principale: la ricerca della non-soluzione.
La crisi che stiamo vivendo è una sconfitta del mondo, la più grave nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale, perché tutti stanno perdendo. Questa constatazione è perfino più urgente, oggi, dell’esercizio legittimo di stabilire punti fermi, come il diritto di Israele a vivere in pace e sicurezza e l’impossibilità di privare i palestinesi di una patria. Stanno perdendo i leader politici, sta perdendo la gente. Sta perdendo la comunità internazionale perché sono anni che nessuno, ai livelli più alti, tenta di gettare acqua sul fuoco. Sta perdendo la diplomazia, che è stata duramente ostacolata ma non ha saputo fare un cambio di passo necessario, riuscendo a farsi ascoltare da chi non voleva farlo. Anche la fiducia e la buona volontà si stanno esaurendo insieme alla speranza.
Non è ormai più tempo di ragionare (come ci aveva insegnato a fare un uomo di pace della forza di Amos Oz, sempre acuto e appassionato) se il conflitto israelo-palestinese sia lo scontro tra due ragioni o piuttosto quello tra due torti, pensando in questo ultimo caso (senza metterli sullo stesso piano) alla volontà pervicace di Benjamin Netanyahu, primo ministro per quindici anni, di rimandare sine die possibili compromessi, andando avanti a testa bassa su una strada che lo mantenesse al potere, o alla perversa determinazione dei fondamentalisti di Hamas nel costruire le proprie fortune sulla violenza e sull’odio del nemico. Tutto è stato ulteriormente aggravato dalla capacità della leadership in Cisgiordania (guidata dallo screditato Abu Mazen, giunto al diciassettesimo anno del suo mandato quadriennale di presidente dell’Anp) di chiudere le porte ad un rinnovamento della classe dirigente e allo svolgimento di elezioni democratiche che sono state ancora una volta rinviate.
Il vero problema è che in troppi hanno creduto (o hanno voluto fingere di credere) che la causa nazionale palestinese fosse destinata a perdere progressivamente rilevanza e interesse. C’è chi lo ha pensato anche in buona fede, preoccupato nei decenni scorsi dalla deriva terroristica di una parte importante della galassia politica post-arafatiana. Molti Paesi arabi hanno preferito sfruttare o alimentare questa deriva, finendo per lasciare un intero popolo a combattere da solo contro il proprio destino. Poi è arrivato il momento degli interessi geo-politici ed economici. Che cosa sono stati nell’attuale situazione gli «accordi di Abramo», raggiunti con Israele da Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Sudan e Marocco nel giusto obiettivo di stabilizzare la regione, se non anche il tentativo di accantonare per sempre la questione palestinese? Le recenti fiammate di Gerusalemme, sulla Spianata delle Moschee, dimostrano che si è trattato se non altro di un calcolo sbagliato ed egoistico.
L’America di Joe Biden, finora così attiva su altri dossier, ha lasciato passare molto tempo prezioso. Ora qualcosa, per fortuna, si sta muovendo. L’amministrazione statunitense chiarisce, con le parole del segretario di Stato Antony Blinken, che «non c’è paragone tra un gruppo terrorista che lancia razzi contro i civili e un Paese che si difende». Giusto. Ma bisognerebbe pretendere con maggiore potenza di persuasione che cessino le ostilità per dare un segnale inequivocabile di impegno umanitario e di rottura con il passato. Le armi devono tacere al più presto. La gente non si deve «abituare a morire», come scriveva ai tempi dell’assedio di Beirut il poeta palestinese Mahmoud Darwish. Poi non esiste alternativa al negoziato, che va perseguito in maniera convinta, premendo in tutte le direzioni. È necessario rimetterne totalmente in piedi le basi, valutando eventualmente altre formule oltre quella dei «due Stati». Non è sbagliata in teoria, ma si rivela difficile nella realtà. Bisogna quindi avere realismo, oltre che coraggio. Due delle tante cose che sono mancate nel buio di questi anni dolorosi.