Fonte: Corriere della Sera
di Franco Venturini
Lo zar Putin sta vincendo, ma questa volta lo zar Putin può perdere
Lo zar Putin sta vincendo, ma questa volta lo zar Putin può perdere. Il paradosso è soltanto apparente, perché le stragi di Parigi, al netto delle emozioni del momento, stanno imponendo a tutti una riflessione strategica dall’esito incerto. Come si combatte l’Isis, come si arresta la sua continua espansione geopolitica, come può essere ristabilito un ragionevole livello di sicurezza nelle società che il Califfato ha messo nel mirino puntando alle stragi di massa? La Francia che bombarda Raqqa e chiede solidarietàai soci europei indica una via che potrebbe non essere soltanto di breve termine.
Ma l’Isis è sofisticato, non bisogna cadere nelle sue trappole ispirate dall’Iraq e dall’Afghanistan. E allora quello che sin qui è stato per il capo del Cremlino un triste successo politico rispetto a noi occidentali può ancora diventare una sconfitta, di sicuro assai più grave del persistente congelamento della crisi ucraina.
I meriti di Putin, quando si parla di Siria e di Isis, vengono da lontano. Disponendo di una intelligence forgiata nei decenni dai rapporti privilegiati tra Mosca e Damasco, il Cremlino denunciò per primo, nel 2011, che gruppi jihadisti molto radicali e molto aggressivi si stavano formando in Siria. Nel 2013, quando un riluttante Obama mandò le sue navi davanti alle coste siriane per sanzionare con i missili l’utilizzo di armi chimiche da parte del regime, furono Putin e Lavrov a togliere le castagne americane dal fuoco strappando a Damasco l’impegno a distruggere il suo arsenale. E molto più di recente, il 30 settembre scorso, Putin prese di nuovo Obama in contropiede aprendo una sua campagna di bombardamenti aerei sulla Siria e suscitando a Washington reazioni almeno inizialmente scomposte.
Peraltro Putin, mentre con una mano premeva il grilletto, con l’altra proponeva all’America e ai suoi alleati di agire insieme contro «gruppi terroristi» spesso e volontariamente mal definiti. Così, nell’attesa di scoprire se Mosca e Washington avrebbero trovato una intesa minima, fu l’Isis a stabilire le regole del gioco con una serie di micidiali attentati volti alla strage indiscriminata, e in ciò molto diversi da quelli parigini di gennaio: la mattanza alla marcia per la pace di Ankara, la bomba sul charter russo da Sharm (ammessa da Putin proprio ieri, per inquadrarla nel clima guerresco del momento), il massacro dimenticato di Beirut, poi Parigi. Il verdetto è parso subito chiaro: l’Isis possiede una forte capacità di decisione e di attuazione, Putin è l’unico ad avere una strategia di risposta.
Una strategia, la sua, che passa anche dalla clamorosa denuncia, in pieno G20, dei finanziamenti che arriverebbero all’Isis da quaranta «entità di Stati» alcuni dei quali membri proprio del G20. Forse Putin ha esagerato come ritengono gli occidentali, forse si riferiva a Stati africani dove sono presenti filiali dell’Isis, forse alludeva alle Repubbliche del Caucaso e dell’Asia centrale, forse voleva ricordare i trascorsi (?) dell’Arabia Saudita e di altre monarchie del Golfo, di sicuro voleva ammonire la Turchia (che però tiene per il collo l’Europa sulla questione dei migranti) per i traffici anche petroliferi che tuttora vi si svolgono. Sta di fatto che il capo del Cremlino ha battuto il pugno sul tavolo molto più forte degli altri.
E allora, se contro l’Isis Putin ci ha preso quasi sempre, se Obama al G20 ha dovuto compiere una clamorosa marcia indietro elogiando i suoi bombardamenti prima definiti «controproducenti», perché il capo del Cremlino oggi vittorioso rischia di perdere domani, come tutti? La risposta è semplice: perché è molto difficile mettere a punto una strategia unitaria ed efficace per battere un Califfato che nel frattempo continuerà a colpire.
Un primo livello di difficoltà (e anche di speranza, s’intende) è quello che è stato affrontato a Vienna e lo sarà ora simbolicamente a Parigi: il tentativo, dopo aver fatto sedere attorno allo stesso tavolo avversari giurati musulmani e non musulmani, di riempire di contenuto la road map che dovrebbe portare in Siria a tregue localizzate (non certo con l’Isis), alla scelta dei gruppi della resistenza da coinvolgere nella trattativa, alla revisione costituzionale, infine alle elezioni e all’uscita di scena di Assad.
Ma per giungere a tanto, occorre superare qualche grosso ostacolo. Trasformare gli acidi sorrisi russo-americani in vera collaborazione, politica e militare. Ottenere dalla Turchia (membro della Nato) un comportamento anti Isis e non anti curdi come quello attuale. Ravvicinare davvero Iran e Arabia Saudita. Far scendere la scure sulla questione dei finanziamenti all’Isis. Rafforzare gli aiuti militari ai curdi, che sono, unitamente alle milizie sciite in Iraq, l’unica fanteria anti Isis esistente in attesa di un ipotetico recupero dell’esercito iracheno. Evitare un crollo del fronte interno europeo provocato dall’abbinamento immigrazione-terrorismo.
Tanti, tantissimi problemi. Ma manca ancora il principale. Se l’Isis accelera la sua campagna stragista, è perché vuole ottenere da un lato la rottura sociale e politica con le comunità musulmane moderate all’interno di alcuni Stati che contano (in Occidente ma anche in Russia), e dall’altro un sentimento di rivolta favorevole a un intervento punitivo di terra. Si tratta di una trappola che dovrebbe esserci nota: alla «crociata» si risponderebbe con la «guerra santa», lo scontro diventerebbe globale, i fronti interni occidentali cederebbero. Nelle stanze dei bottoni oggi si discute piuttosto di bombardamenti più massicci e coordinati, di incursioni di truppe speciali, di intelligence da mettere in comune, di curdi e ancora di curdi, forse di qualche dimostrativa bandiera araba. Così l’Isis può essere battuto in Siria come in Iraq, e formule non troppo diverse cominciano ad essere evocate per la Libia. Sarà una prova straordinariamente difficile. E se sarà vittoriosa, Putin avrà vinto due volte.