Sale la tensione tra la Cina e Taiwan. E Xi Jinping nello scontro con Taipei gioca con le paure del mondo
A che cosa punta Xi Jinping con le manovre militari che accerchiano Taiwan? Un obiettivo politico è dichiarato dalla propaganda: punire il nuovo presidente William Lai Ching-te, che definisce «un traditore da inchiodare alla colonna dell’infamia». Il tono è più duro del passato, brutale, ma l’odio anche personale del Partito comunista verso Lai era noto.
Il comando cinese afferma che questa volta aerei, navi, forze da sbarco mobilitate simulano la «presa di controllo del campo di battaglia», vale a dire l’invasione dell’isola. Che i generali di Pechino abbiano piani che vanno dal blocco navale all’attacco in grande stile è evidente: da quattro anni, ogni giorno e ogni notte la difesa di Taipei vede sfrecciare i jet con la stella rossa sempre più vicini alle sue coste, mentre la flotta cinese si esercita a tagliare le linee di soccorso.
In realtà, Xi in queste ore sta agitando la sciabola della guerra di riunificazione per mostrarla agli Stati Uniti e agli alleati in Europa e nel Pacifico. In sostanza mette in scena lo spettro del Terzo fronte, dopo Ucraina e Medio Oriente. Una prospettiva che spera possa intimorire, dividere e paralizzare il campo occidentale.
Dagli Anni Settanta tutti i presidenti degli Stati Uniti si sono trincerati dietro la cosiddetta «ambiguità strategica»: invocano il mantenimento dello status quo, che è la separazione di fatto tra Pechino e Taipei, senza rivelare se rischierebbero le vite dei soldati americani per difendere l’isola lontana.
Joe Biden ha dato alcuni colpi a quel principio, dicendo che in caso di attacco cinese a Taiwan scenderebbe in campo (i consiglieri della Casa Bianca si sono sempre affrettati a correggerlo, per non peggiorare il confronto con la Cina).
La difesa di Kiev ha un costo pesante in termini di forniture militari, armi e munizioni promesse da Washington a Taiwan sono già in ritardo. Il teatro mediorientale crea dubbi politici dilanianti. E alla Casa Bianca dopo il voto di novembre potrebbe tornare il grande destabilizzatore Donald Trump, ribaltando le priorità dell’America.
In Europa, ricevendo con grandi onori Xi all’Eliseo, Emmanuel Macron si è accontentato di chiedergli un impegno di facciata su una (impossibile) tregua olimpica in Ucraina. E in cambio ha ottenuto la grazia cinese per l’export di cognac francese. Silenzio su Taiwan: l’anno scorso Macron aveva detto che si tratta di un’area remota per gli interessi europei e rivendicato autonomia strategica da Washington.
Xi, dunque, ha motivo per pensare che l’ipotesi di un Terzo fronte giochi a favore della superpotenza cinese. A differenza di Vladimir Putin, finora non è stato un giocatore d’azzardo. Sa aspettare. Ha detto ai compagni del Politburo che la questione della riunificazione non può più essere lasciata alle generazioni politiche future: ma siccome il suo mandato è senza limiti di durata, ha ancora tempo per consegnarsi alla storia. Ha incassato la sconfitta dell’elezione di Lai, lo scorso gennaio. Ha continuato a coltivare l’opposizione taiwanese dando udienza a Pechino al vecchio presidente del Kuomintang, per dividere l’opinione pubblica dell’isola. Cerca di diffondere il virus del dubbio.
La scelta di tempo di questi giochi di guerra è significativa. L’ordine è arrivato tre giorni dopo il discorso di insediamento di Lai. Ed è presentato come una «punizione» per le sue parole.
Che cosa ha detto di così grave Lai Ching-te? Il 20 maggio davanti alla folla di Taipei, in 30 minuti ha citato per 31 volte la parola democrazia, ricordando ai suoi 23 milioni di cittadini la grande differenza con i cinesi che non possono scegliere il loro governo. E questo paragone è percepito come un pericolo dal Partito-Stato che da 75 anni domina Pechino senza opposizione. Lai ha invocato una ripresa del dialogo, troncato da Pechino otto anni fa quando era stata eletta la signora Tsai Ing-wen, che poi lo nominò vice. Il nuovo presidente ha chiesto alla Cina di mettere da parte le minacce, di ripartire discutendo su scambi turistici e culturali. Un’apertura concordata con gli americani.
Ma tra alcuni politologi occidentali circola una critica notevole per il presidente eletto dai taiwanesi: il passaggio giudicato «pericoloso» è quello secondo il quale «è chiaro a tutti che la Repubblica di Cina (storico nome di Taiwan, ndr) e la Repubblica popolare cinese non sono subordinate l’una all’altra». È un modo per dire che Taiwan vuole difendere lo status quo e rifiuta di consegnarsi al governo del Partito unico di Pechino. La novità è che i predecessori di Lai parlavano delle «due parti dello Stretto», più cautamente ma con la stessa determinazione.
La propaganda cinese ha colto l’occasione, cavalcando la sfumatura di linguaggio per gridare all’«inganno indipendentista» e lanciare queste grandi manovre militari. Xi ha osservato il dibattito in Occidente, che sia con l’Ucraina sia con Israele a volte non distingue più la legittima ragione di sopravvivenza dell’aggredito nei confronti dell’aggressore e considera la vittima corresponsabile se non colpevole. Il leader cinese vuole negare al capo del governo rivale anche il diritto di pensiero e di parola. E dalla sua parte ha l’incubo del Terzo fronte.