La soluzione dei due Stati potrebbe essere rilanciata con più aderenza alla realtà in un nuovo scenario, ancora peraltro tutto da costruire
«Sono pronto ad un’altra guerra per salvare Israele», diceva Amos Oz già nel 2007, scrutando l’orizzonte dal suo appartamento di Tel Aviv, mentre il terrorismo suicida cambiava segno alla questione palestinese e la lunga mano dell’Iran alimentava odio e violenza. Oggi quel momento è arrivato. La priorità, diciamolo chiaramente, è annientare Hamas, il movimento-partito che ha seminato la morte nello Stato ebraico, facendo rivivere gli orrori dell’Olocausto, e ha condannato Gaza a oppressione e miseria.
Sarà a lungo il tempo di piangere. È quasi un sollievo — lo ha detto la figlia Fania — che a uomini giusti, amanti della pace come l’autore di Una storia di amore e di tenebra, siano state risparmiate le immagini di quanto è avvenuto al kibbutz di Kfar Aza o al rave party di Reim e che i loro occhi limpidi non possano più vedere quanto sangue verrà versato in quella enclave della disperazione abitata da una popolazione di centinaia di migliaia di ragazzi e bambini innocenti. Le lacrime scorreranno come un inarrestabile fiume di dolore e accompagneranno il destino degli ostaggi, esposti al ricatto disumano di Hamas.
Intanto, la guerra, che gli Stati Uniti cercano giustamente di limitare, in un quadro internazionale reso incandescente dalle minacce di Teheran e dallo schierarsi della Cina a fianco del mondo islamico. Non solo è impossibile sapere come sarà e quanto durerà, ma è difficile immaginare quello che accadrà «dopo» . Una mancanza di futuro segna i giorni che stanno per venire, aggravata dal fatto che il passato è stato dominato proprio dalla non-volontà di guardare avanti: Israele — in particolare con la leadership di Benjamin Netanyahu — ha scommesso sul mantenimento all’infinito dello status quo, Hamas ha puntato sul suo perverso controllo del potere ispirato alla fede violenta nella distruzione del nemico e al fanatismo religioso, la comunità internazionale non ha mai fatto uno sforzo di comprensione preferendo la riproposizione di vecchie idee, i Paesi arabi hanno voltato la testa dall’altra parte.
Senza dimenticare l’indignazione, e esercitando tutte le pressioni possibili perché si eviti una catastrofe umanitaria, bisogna iniziare a prefigurare gli assetti futuri. La soluzione del conflitto israelo-palestinese non si trova certamente in mezzo alle macerie. «Serve un piano», dice in un’intervista al Corriere Thomas Friedman, grande reporter e analista dei problemi medio-orientali, convinto che le uniche cose peggiori di Hamas che controlli Gaza siano che non la controlli nessuno o che Israele decida di restare. Quale potrebbe essere questo piano? «Per impedire che il conflitto degeneri è indispensabile che intervengano forze esterne», scrive lo storico Yuval Noah Harari, lanciando l’idea di una «coalizione di volenterosi che riunisca Usa, Ue, Arabia Saudita e Autorità palestinese».
Gaza come l’Afghanistan? È chiaro che i dubbi possono essere molti. Ehud Barak, ex premier e ministro della Difesa pensa ad una forza multinazionale, che a suo avviso dovrebbe essere composta da Paesi arabi, in grado di cedere il controllo della Striscia all’Autorità Nazionale Palestinese di Abu Mazen. «È un idea bella, anche se non so se sia fattibile», ha detto a El País. L’ ammissione chiara di una situazione quasi priva di vie d’uscita che The Economist sintetizza così: «L’occupazione non è sostenibile, un governo di Hamas è inaccettabile, il potere ai suoi rivali del Fatah è indifendibile, un governo fantoccio è inimmaginabile».
Se è già difficile immaginare la fase immediatamente successiva all’operazione anti-Hamas a Gaza, è ancora più proibitivo andare alla radice dei problemi: prosciugare il terreno dove fioriscono l’odio e la violenza, migliorare condizioni di vita e diritti dei palestinesi, cercare le basi della convivenza tra i due popoli. In questo quadro, l’estrema debolezza dell’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania — invisa alla popolazione, segnata dalla corruzione, guidata da un uomo di ottantasette anni che rifiuta da tempo lo svolgimento di elezioni — è un elemento che ostacola, ma non può nemmeno impedire per sempre, il raggiungimento di una soluzione. La società palestinese è sicuramente in grado di esprimere una leadership migliore. Il declino di Netanyahu, che ha pensato più a se stesso che alla sicurezza dei suoi cittadini, è destinato ad essere un’opportunità da sfruttare in un Paese che ha dimostrato un profondo legame con la sua democrazia e che non è condannato alla contrapposizione con l’altro.
a soluzione dei due Stati — che in passato è finita per essere uno slogan, lontano dalla complessa situazione che si è cementata sul terreno — potrebbe essere rilanciata con più aderenza alla realtà in un nuovo scenario, ancora peraltro tutto da costruire ma di cui si intravede qualche segnale. «Chi avrebbe creduto, venti anni dopo la Shoah, che ci sarebbe stata un’ambasciata israeliana a Berlino e un’ambasciata tedesca a Tel Aviv? Chi avrebbe immaginato la caduta del Muro? Chi avrebbe pensato che le strade di Belfast avrebbero conosciuto una tregua?», scrive, all’indomani del 7 ottobre, Bassam Aramin. È il padre di una ragazza palestinese uccisa da un soldato di Tsahal. Lo scrittore irlandese Colum McCann lo ha fatto diventare uno dei due protagonisti del suo romanzo Apeirogon insieme all’amico israeliano Rami Elhanan, la cui figlia Smada morì in un attentato suicida. A giudizio di Bassam, che ha dedicato la vita a sostenere la convivenza, «la pace è inevitabile». Parole di speranza, queste, di cui il mondo ha assoluto bisogno.