Fonte: Corriere della Sera
di Angelo Panebianco
I movimenti anti-europei non sono nati per caso, non sono un incidente di percorso più o meno irrazionale e incomprensibile. Sono il frutto di tutto ciò che non va nell’Unione europea così come è oggi. La peggiore scelta sarebbe la più facile, la meno costosa politicamente (nel breve periodo): la scelta dell’inerzia
Per quanto, alla luce dell’esperienza passata, ciò risulti inusuale — uno «strappo» rispetto alla tradizione — è un fatto che, per la prima volta, l’Europa avrà qualcosa a che fare con le elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo: una parte almeno dei cittadini europei voterà pensando all’Unione, sceglierà un partito o l’altro in funzione dei suoi orientamenti in materia di integrazione europea. In passato non è stato così. In passato le elezioni europee erano una specie di costoso sondaggio con il quale veniva misurato il grado di consenso/ostilità dei cittadini dei vari Paesi nei confronti del «loro» governo nazionale. Chi era contro il governo lo segnalava votando, alle elezioni europee, per un partito di opposizione mentre tanti fra quelli che gli erano meno ostili si astenevano. Il rinnovo del Parlamento europeo in quanto tale non interessava alla schiacciante maggioranza dei votanti. Pochissimi conoscevano il funzionamento delle istituzioni europee, pochissimi sapevano quale fosse il ruolo del Parlamento, pochissimi erano interessati ai processi decisionali dell’Unione. Disinteresse e disinformazione erano la regola. La causa consisteva nel fatto che l’Europa non era, e non era mai stata, un vero oggetto di divisione politica all’interno delle varie comunità nazionali. Fin dai suoi primi passi, fin dalla nascita delle comunità europee, l’Europa era una faccenda che riguardava esclusivamente le élites, le classi dirigenti. Gli elettori erano (tacitamente) favorevoli all’integrazione europea perché — essi sapevano — il processo di integrazione era fonte di vantaggi economici per tutti.
Agli elettori non interessava altro. Non avevano bisogno di saperne di più. Contrariamente alle speranze degli europeisti più ingenui, neppure quando (1979) si cominciò a votare per il Europarlamento, la schiacciante maggioranza degli elettori si interessò alle questioni europee. L’Europa non era un tema «politico» su cui fare campagna elettorale. È solo da una quindicina d’anni che l’Europa si è politicizzata, ossia è diventata un argomento su cui ci si divide all’interno dei vari Paesi. Il primo segnale che le cose stavano cambiando arrivò con il referendum sul trattato costituzionale in Francia del 2005. Poi la combinazione fra una decennale crisi economica e i flussi migratori ha consolidato la tendenza. Il resto è cronaca di questi anni: la Brexit, i successi elettorali di movimenti politici ostili all’Europa detti sovranisti. Adesso, all’interno di ogni comunità nazionale, sull’Europa ci si divide. La disinformazione di un tempo, per quel che se ne sa, è rimasta: moltissimi europei continuano a non sapere quasi nulla di come funzionano le istituzioni dell’Unione, per esempio, di che cosa andranno a fare gli eletti al Parlamento da loro stessi votati. Ma l’area del disinteresse si è almeno in parte ridotta.
Dunque, questa volta si voterà, molti voteranno, per o contro l’Europa. È la ragione per cui gli esiti sono così incerti. I cosiddetti sovranisti otterranno più voti certamente. Ma il loro successo potrebbe risultare inferiore al previsto se gli europeisti riuscissero a mobilitare molti elettori che in altre occasioni avrebbero scelto l’astensione. Come è stato osservato (per esempio, da Sergio Fabbrini sul Sole o da Guido Tabellini sul Foglio), l’Europa costituisce ora un tema di divisione più importante della tradizionale contrapposizione fra destra e sinistra.
Probabilmente, i risultati non saranno netti né di immediata e facile leggibilità. Si prenda il caso italiano. Qui giocano le solite propensioni trasformiste, gli atteggiamenti di certi uomini tutti d’un pezzo, dotati di principi che non si spezzano ma che, in compenso, possono piegarsi in qualunque direzione. Come ha osservato Maurizio Ferrera (sul Corriere di due giorni fa) i nostri (ex?) euroscettici oggi al governo non minacciano più referendum sull’euro e altri sfracelli, dicono ora solo di voler cambiare — come dei riformisti qualsiasi — l’Europa che c’è. Sono rinsaviti? Hanno capito che rompere con l’Europa sarebbe un suicidio collettivo? Forse, più probabilmente, compulsando i sondaggi, hanno preso atto che gli italiani non li seguirebbero in una avventura anti europea. Per queste ragioni, comunque, il risultato elettorale italiano non darà un chiaro responso pro o contro l’Europa. In altri Paesi le cose potrebbero andare diversamente. Per ragioni diverse, in Gran Bretagna (ove forse le elezioni saranno un quasi referendum in extremis sulla Brexit), in Francia e in Germania, nei Paesi europeo-orientali, nelle democrazie nordiche, sarà possibile misurare e soppesare con più precisione europeismo e anti-europeismo. Poniamo che i risultati siano abbastanza buoni per gli europeisti. Poniamo che i sovranisti non ottengano il travolgente successo che molti immaginano. Solo degli sciocchi potrebbero a quel punto tirare un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo, pensare «l’Europa è salva».
I movimenti anti-europei non sono nati per caso, non sono un incidente di percorso più o meno irrazionale e incomprensibile. Sono il frutto di tutto ciò che non va nell’Unione europea così come è oggi. La peggiore scelta sarebbe la più facile, la meno costosa politicamente (nel breve periodo): la scelta dell’inerzia. Contrariamente a molti altri, chi scrive non è affatto sicuro che Angela Merkel verrà ricordata come una grande leader europea. Credo invece che, non avendo avuto la forza o il coraggio di prendere per i capelli l’opinione pubblica tedesca e di trascinarla con sé, come i veri leader sanno fare, ella abbia contribuito a ingessare l’Europa dandola così in pasto ai suoi nemici. Ci sono, nella costruzione europea, vizi d’origine per anni e anni nascosti sotto il tappeto. Per citarne uno: la malsana intrusione normativa dell’Unione in ambiti in cui non dovrebbe entrare, l’ossessiva mania regolamentatrice e dirigista che è incompatibile con i principi del federalismo (comunque declinato). C’è stato un tempo in cui occultare i vizi d’origine poteva avere un senso. Oggi fa soltanto danni.