22 Novembre 2024
Bambini scuola

Jonathan Haidt, psicologo sociale e docente alla New York University: tra i teenager e i 20enni  c’è un’epidemia di sofferenza psichica, con il raddoppio dei casi di depressione. Sono giovani non più in grado di elaborare traumi, personali e collettivi, stratificati nel tempo

La GenerazioneZ, cioè i nostri figli o nipoti nati dalla metà degli anni Novanta al 2010/12, sono un prodotto dell’umanità “danneggiato da uno smottamento nella cultura dell’infanzia”? E questo smottamento è l’esito dell’incrocio tossico tra una super protezione da parte dei genitori nella vita fisica e un’assenza totale di protezione da parte di qualunque adulto nella vita digitale? E se la risposta alle prime due domande è sì, abbiamo drammaticamente bisogno di “una correzione culturale” prima che sia troppo tardi per i nostri ragazzi e il futuro della specie?
La questione – presentata con diagrammi, esempi e contro-obiezioni alle critiche prevedibili – è stata posta da Jonathan Haidt, psicologo sociale e docente di leadership etica alla Stern School of Business della New York University, il quale ha appena pubblicato The Anxious Generation ed è stato in passato autore di saggi premonitori sulla fragilità emotiva delle generazioni “viralizzate”. Il suo punto di partenza, non solo americano, sono i numeri. Che cosa dicono le ricerche, le statistiche, gli esperimenti accademici? Che la percentuale di giovanissimi (teenager) e giovani (ventenni) colpiti da depressione fa registrare un aumento a doppia cifra (più del 50% negli Stati Uniti). E così i tentativi di suicidio e i pensieri suicidari (in particolare nella popolazione femminile) rispetto a dati rimasti stabili fino al 2000 e non soggetti alla stessa oscillazione in altri strati della popolazione. Ci sono ulteriori lampeggianti, segnali di pericolo visibili a tutti, meno gravi e tuttavia preoccupanti per quanto si stanno rivelando comuni a società che potremmo definire “occidentali”, trasformate – se non sconvolte – dalla tecnologia: il peggioramento della performance scolastica, soprattutto in matematica; la frammentazione della capacità di attenzione; l’impoverimento delle relazioni umane; il disinteresse crescente per i rapporti sessuali; la tendenza a restare nella famiglia di origine e la ritrosia ad avviarne una propria; una diffusa avversione al rischio, a causa della rarefazione delle esperienze dirette, che tende ad abbassare l’asticella dell’ambizione rispetto ai predecessori “in casa”, Boomer (1946- 1964) e GenerazioneX (1965-1980).
Il libro, anticipato sul magazine The Atlantic, ha subito aperto una discussione negli Stati Uniti per la visione apocalittica dell’autore. Haidt è convinto che l’ambiente in cui i ragazzi crescono sia “ostile allo sviluppo umano” e che questa condizione stia provocando “un’epidemia” di sofferenza psichica. Causa della caduta sarebbe l’attraversamento della pubertà con in tasca uno strumento sempre acceso che ti spegne rispetto alla realtà circostante per calamitarti verso Paesi delle meraviglie e dell’eccitazione. Dove la produzione di dopamina è incessante – attivata da like, retweet, commenti – fino a provocare una dipendenza che impedisce ogni rientro in un universo senza filtri. Come succede invece alla Alice di Lewis Carroll quando ritrova le sue dimensioni e si sveglia nel giardino d’origine. Questo “collasso esistenziale” sarebbe cominciato con il passaggio dai cellulari agli smartphone e la diffusione di questi negli anni Dieci.
Per Judith Warner, che ne ha scritto sul Washington Post ed è a sua volta autrice di studi sulla stessa generazione (tra cui E poi smisero di parlarmi: come dare senso alla scuola media), il nesso di causa-effetto dovrebbe essere spostato nel campo della correlazione. I ragazzi e le ragazze della Generazione online, secondo lei, andrebbero visti come il sintomo di una patologia mentale generale, allargata a un’intera società che non è più in grado di elaborare traumi, personali e collettivi, stratificati nel tempo. Siamo – adulti e bambini – esposti a una vulnerabilità che minaccia il nostro benessere quotidiano e ci induce a una fuga scomposta davanti alla complessità.
Il bivio è profondo ma, nell’incertezza, alcune soluzioni proposte da Haidt sembrano di buonsenso. Tenere gli smartphone rinchiusi in un armadietto durante le lezioni a scuola. Non regalare ai nostri figli e nipoti telefoni in grado di collegarsi alla rete fino alle scuole superiori. Alzare da 13 a 16 anni l’età ammessa per aver accesso ai social network (con verifiche plausibili del rispetto della norma). Non basterà, è un gradino in una scalata, ma una riconversione andrebbe studiata. Siamo andati allo sbaraglio, li abbiamo gettati in mare senza salvagente e lezioni di stile libero.

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