Fonte: Corriere della Sera

Donne Carriera

di Beppe Severgnini

«Eternamente loda / eternamente dice / eternamente mangia / e posa ad infelice». Un volumetto grigio chiama dallo scaffale più alto e propone questo epigramma (le librerie domestiche sono miniere di coincidenze). Il titolo della raccolta è Quiproquo (Garzanti, 1974). L’autore è Tito Balestra, uno che sapeva mirare lontano. Quei quattro versi anticipano un tipo umano che va forte, in questo sconcertante 2016. Prima di occuparcene, due parole sull’autore. Nato nel 1923 a Longiano in Romagna — terra artisticamente esplosiva — si trasferisce a Roma nel 1946 per diventare assistente sociale. Vive a casa degli zii: lui muratore, lei portiera. Arriva «all’arte dalla gavetta», per usare le sue parole. Frequenta le gallerie d’arte e le redazioni dei giornali. Conosce Alvaro, Bassani, Bertolucci, Flaiano, Guttuso, Longanesi, Maccari. E scrive. Alfonso Gatto: «Balestra è un poeta che non ha avuto fretta di stampare, un poeta che soltanto gli amici sapevano che scrivesse poesie». Di sicuro, non poteva immaginare che una di queste sarebbe servita a descrivere, molti anni dopo, l’infelice di professione. L’uomo che non protesta; si lamenta. Che non dice; grida. Che non critica; depreca. L’uomo per cui è tutto, sempre, un disastro. E mai per colpa sua. Certo. Non è piacevole contare i soldi dello stipendio, e scoprire che da anni non aumentano. Non è bello vedere i figli costretti a elemosinare un lavoro. Non è divertente guardare i rapaci politici in cortile, pronti a beccare ciò che trovano. Ma l’apocalisse — vogliamo dirlo? — è un’altra cosa. Disperarsi, nell’Italia di oggi, non è solo controproducente; è offensivo verso chi l’orrore l’ha vissuto o lo vive davvero (la guerra, il terrorismo, la persecuzione). Ma l’infelice di professione non vuol sentire ragioni: vive un incubo, e deve urlarlo a tutti. Ha più di un alleato, purtroppo. Se gli industriali fanno i finanzieri, e passano la vita in casa o in viaggio, non si lamentino d’aver perso influenza. Se noi dei media soffiamo sul fuoco, poi non stupiamoci dell’incendio. Se la politica accarezza qualsiasi malumore — e sputa sull’Europa, accusata anche per colpe che non ha — o sappia: prepara il disastro. Come Sansone — infelici, rabbiosi, incuranti delle conseguenze — abbatteremo il tempio. Peccato che, sotto le macerie, potrebbe restare la democrazia.

A.N.D.E.
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