22 Novembre 2024

Fonte: La Repubblica

di Eugenio Scalfari

L’uscita sarebbe una sconfitta per tutta l’Unione e una vittoria dei movimenti populisti che vogliono sfasciare l’esistente

Ci sono molti motivi per i quali gli inglesi (ma non gli scozzesi) non si sentono europei. Uno in particolare lo spiega Bernardo Valli nel suo articolo di ieri su queste pagine, citando lo storico anglo-francese Robert Tombs: “Quando gli europei raccontano la storia d’Europa parlano dell’Impero romano, del Rinascimento e dell’Illuminismo. Raccontano una storia continentale che tascura la Gran Bretagna ed è questa la ragione per cui molti inglesi considerano l’Europa come un’entità con la quale bisogna mantenere le distanze”.
In realtà le cose non stanno proprio così: l’Inghilterra anzi, per molti europei, fa parte integrante del continente e la sua storia è la nostra, strettamente connessa con quella italiana, francese, spagnola, tedesca. Del resto l’Inghilterra (quando ancora la si chiamava soltanto così) è stata il penultimo dei grandi imperi occidentali: quello romano, quello spagnolo, quello inglese e quello americano. Il colonialismo francese fu un’altra cosa e non può dirsi propriamente un Impero, anche se l’influenza politico-culturale della Francia è stata dominante per tutto il nostro continente.
La verità è che sono soprattutto gli inglesi a sentirsi storicamente, politicamente, culturalmente una Nazione, anzi una civiltà che ha determinato la storia europea. Il progetto attuale di un’Unione europea che, almeno in prospettiva, dovrebbe arrivare ad una vera e propria Federazione sul modello degli Stati Uniti d’America, non piace affatto agli inglesi. Questa è la vera radice dello scontro, anche se il Brexit ridurrebbe il Regno Unito a non esser più unito e a diventare un’isoletta come cantavano i fascisti degli anni Quaranta del secolo scorso: “Malvagia Inghilterra / tu perdi la guerra / lasciare Malta e abbandonare Gibilterra”.
Non solo non perse la guerra ma riuscì da sola a fronteggiare Hitler prima che l’America intervenisse al suo fianco per difendere Londra e liberare tutta l’Europa dal dominio della Germania nazista.
Dunque l’Inghilterra o comunque vogliamo chiamarla appartiene alla nostra storia europea, geograficamente, politicamente, culturalmente. Il Brexit – se dovesse vincere – sarebbe una sconfitta per tutta l’Europa e per tutta la civiltà occidentale ed una vittoria dei movimenti populisti che vogliono sfasciare tutto l’esistente cancellando il passato e lasciando il futuro sulle ginocchia del Fato, cioè di nessuno.
Ci saranno anzitutto ripercussioni economiche, e infatti le istituzioni di tutto il mondo sono mobilitate: il Fondo monetario internazionale, la City e Wall Street, la Borsa di Shanghai, le Banche centrali di Washington, di Londra, di Zurigo, di Francoforte, di Tokyo, di Pechino, di Mosca, di San Paolo del Brasile, di New Delhi e di Cape Town; i Fondi d’investimento, i Fondi-pensione, il sistema bancario mondiale che è ormai strettamente interconnesso.
Venerdì scorso le Borse di tutto il mondo hanno avuto una svolta improvvisa: dopo una settimana dominata dal ribasso, c’è stato un consistente rialzo generale connesso ai sondaggi sul Brexit e sulle quotazioni degli allibratori di Londra: l’omicidio di Jo Cox è diventato paradossalmente un elemento positivo per le reazioni d’una parte consistente del Partito laburista e della pubblica opinione liberale. Parrebbe da questi sintomi che l’esito del referendum si stia per la prima volta orientando verso la permanenza della Gran Bretagna nell’Unione europea, sia pure alle condizioni abbastanza pesanti che Londra ha imposto e le Autorità dell’Unione europea hanno accettato.
Se questo sarà l’esito referendario quale sarà alla lunga la politica dei 28 Paesi membri dell’Ue?
Personalmente credo sia chiaro: una politica monetaria di maggiore flessibilità, una politica dell’immigrazione più contenuta con l’obiettivo di trattenere il più possibile in Africa i flussi che provengono da quel continente, una maggiore apertura verso la Russia e soprattutto un aumento dell’egemonia politica della Germania, concentrata soprattutto sull’Eurozona.
Il nuovo equilibrio non può sfuggire a chi osserva il sistema che si verrebbe a delineare: la Gran Bretagna resta in Europa dando maggior peso ai Paesi che non appartengono alla moneta comune; in compenso la Germania tende ad accettare una politica di crescita concentrandola appunto sui 19 Paesi dell’Eurozona. Draghi rientrerebbe nel quadro della Merkel che probabilmente accetterebbe la sua pressione verso una politica espansiva e bancariamente attiva. Ad una condizione però: che la garanzia alle banche non sia estesa anche ai depositanti poiché i tedeschi non vogliono pagare per gli altri.
Insomma, se la Gran Bretagna resta il suo peso politico-economico aumenterà, la Germania diventa più aperta ad una crescita moderata da aumenti di progressività; Francia e Spagna sono alle prese con difficoltà notevoli ma saranno comunque aiutate da Bruxelles. E l’Italia?
Noi abbiamo molto da guadagnare dal “Remain” inglese: diventiamo il principale interlocutore della Merkel e al tempo stesso dei Paesi dell’Europa meridionale, Francia, Spagna, Portogallo, Grecia. Ed anche di Draghi e di Juncker. Ma al tempo stesso del governo di Tripoli e perfino di Putin come si è visto nei giorni scorsi. L’Italia ha un vasto e variegato orizzonte dinanzi a sé. Sarà in grado di gestirlo convenientemente?
Qui giocheranno in modo purtroppo difficile le qualità e i difetti di Matteo Renzi. Come tutti, il nostro presidente del Consiglio è dotato delle une e degli altri e più il quadro è complesso più le contraddizioni aumentano. Tende a centralizzare la politica: è normale, tutti gli uomini politici tendono a questo.
È normale la sua politica se rispetta le origini e il ruolo di un partito di sinistra democratica, che deve porsi come obiettivo di spostare l’Europa verso una linea di sinistra riformatrice. Non è più il momento di rottamare bensì quello di costruire e la sinistra riformatrice deve puntare in Europa e in Italia sulla creazione di nuovi posti di lavoro, sull’aumento degli investimenti, sull’aumento della produttività, sull’aumento della domanda, sulla crescita delle zone depresse in tutta Europa a cominciare dal Mezzogiorno italiano. Un ministro del Tesoro unico dell’Eurozona, una Fbi europea e un ministro dell’Interno europeo.
Questo è il programma da perseguire e questo ho avuto la possibilità di discutere con Renzi sabato scorso all’Auditorium di Roma. Mi è parso abbastanza interessato a questa diagnosi; in gran parte da lui stesso anticipata. Con una differenza di fondo: la legge elettorale attualmente vigente, che personalmente mi sembra del tutto inadeguata. Ma oggi non è questo il tema: è il “Brexit”, puntando sull’ipotesi che vincerà il “Remain”.
Se dovesse invece perdere, allora tutti gli scenari cambiano. In peggio. Speriamo che la vecchia Inghilterra si ricordi del liberale Churchill e dei laburisti dell’epoca. Gli uni e gli altri volevano l’Europa. Erano più moderni dei “brexisti” di oggi che la storia d’Inghilterra sembrano averla dimenticata.

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