Fonte: Corriere della Sera
di Goffredo Buccini
Il tema è sempre affrontato come se fosse una prima volta. E anziché un terreno da curare nell’interesse della comunità, è un campo di battaglia tra destra e sinistra
L’Europa ci è matrigna, ma dalla nostra abbiamo almeno un europeo. Chissà, dunque, se l’indiscusso prestigio di Mario Draghi smuoverà anche il doloroso dossier sull’immigrazione, incartapecorito da anni tra veti incrociati ed egoismi nazionali. Per ora è andato piuttosto male il vertice di martedì a Lisbona tra i ministri dell’Interno della Ue insieme con una decina di Paesi africani: era propedeutico proprio alla partita che si giocherà nel Consiglio europeo di fine maggio, dove il premier italiano pare deciso a porre con chiarezza il problema (prima neppure in calendario), mettendo sul tavolo un documento elaborato in questi giorni a Palazzo Chigi. Ogni speranza è lecita, molta prudenza è consigliabile.
Rendere europea la questione è del resto faccenda abbastanza rilevante per i nostri partner mediterranei, irricevibile per quelli del Nord e dell’Est (Ungheria in testa), del tutto vitale per noi: pena il collasso del nostro già sgangherato sistema di accoglienza e della nostra già precaria convivenza civile sotto la pressione di flussi che, salvo correzioni, torneranno fuori controllo. I migranti enfatizzano le lacerazioni ancora assai profonde di un’Europa a 27 diverse sensibilità, nella quale il particulare di ciascuno blocca tutti gli altri (l’ultimo stop ai ricollocamenti viene dall’Austria) e che solo il comune choc della pandemia ha in parte rammendato; un’Europa che svela tutta la propria suicida debolezza disinteressandosi della frontiera mediterranea italiana.
Intendiamoci: qualche formale parola di solidarietà non ci è stata negata nemmeno stavolta, prima e durante l’incontro portoghese cui ha partecipato in collegamento la nostra Luciana Lamorgese, alle prese con l’approssimarsi di un’estate di sbarchi e con il temuto tracollo di Lampedusa (21 imbarcazioni approdate in poche ore). La commissaria europea Ylva Johansson ha invitato gli altri membri della Ue a «supportare l’Italia», ma poi ha ammesso che «facciamo progressi piuttosto lentamente». Fonti Ue hanno spiegato quindi che non ci sono impegni specifici, almeno per ora. Insomma, un cerotto di belle chiacchiere, per avviluppare la prima istanza della nostra ministra, che non manca certo di pragmatismo e vorrebbe almeno tornare in via provvisoria a un principio di redistribuzione degli arrivi simile a quello sancito nel summit di Malta del settembre 2019 (su base volontaria e pur limitato ai soli richiedenti asilo, parte minima dei flussi sulle nostre coste). Purtroppo, le cose da allora sono addirittura peggiorate. In ragione del Covid-19, che certo non spinge verso l’apertura. E a causa della freddezza della Germania, dove le elezioni di settembre potrebbero sconsigliare ad Angela Merkel slanci solidaristici (è vero tuttavia, per converso, che un eccesso di egoismo della cancelliera, ormai a fine corsa, potrebbe persino spingere gli elettori più europeisti verso i Verdi, in grande ascesa e molto disponibili al dialogo).
Ciò che lascia di stucco sulle migrazioni (mentre fonti dei servizi sussurrano al nostro governo di settantamila poveretti già pronti sulla costa libica a farsi impacchettare in qualche carretta del mare dagli scafisti) è constatare come il tema venga sempre affrontato da tutti gli attori del dramma quasi fosse una prima volta, un inedito assoluto, trattando da emergenza un dato strutturale da almeno due decenni: i grandi movimenti migratori di questa nostra era globalizzata.
È un’illusione ottica che colpisce noi giornalisti per primi, condannati a una coazione a ripetere fin nelle virgole. Dieci anni fa scrivevamo della «collina della vergogna» dove, appena sopra il porto di Lampedusa, s’erano accampati poco meno di seimila profughi; oggi, cronache giustamente indignate narrano del «molo della vergogna», il Favaloro, sempre a Lampedusa, dove si replicano quasi le stesse scene a fronte di un centro d’accoglienza pieno sei volte la propria capienza. «Naufragio di clandestini, cinquanta dispersi», era un terribile titolo dell’8 marzo 2002, sulla morte di donne e bambini migranti a un pugno di miglia da Lampedusa. «Morti in 130, le Ong accusano Tripoli» è il titolo del 23 aprile di diciannove anni dopo. In mezzo, un’ecatombe che solo dal 2014 è costata la vita a ventunomila persone, ha ricordato la Johansson.
Abbandonati dall’Europa e imprigionati nella camicia di Nesso del regolamento di Dublino (che vincola il migrante al Paese di primo approdo: assai spesso l’Italia, dunque, vista la posizione nel Mediterraneo), abbiamo a nostra volta fatto del nostro peggio. Sposando la visione più emergenziale possibile dell’accoglienza, abbiamo privilegiato strutture elefantiache, dalla gestione opaca e (solo sulla carta) provvisorie piuttosto che agili insediamenti di seconda istanza nei Comuni (gli Sprar, oggi Sai). Abbiamo fatto del problema, anziché un terreno bipartisan da curare nell’interesse della comunità, un campo di battaglia tra una destra portata a lucrare sulle paure degli italiani, enfatizzandole a ogni sbarco, e una sinistra determinata a ignorarle, derubricandole a ubbie insensate. Abbiamo pagato i libici (così come Erdogan al limite della rotta balcanica) per tenere a bada i profughi nel Mediterraneo al posto nostro. E questa sembra, nel breve termine, la linea che finirà per prevalere ancora, forse in accordo con l’Europa. Un’idea pessima. Sia per evidenti ragioni umanitarie (i campi di detenzione in Libia sono uno scandalo difficilmente tollerabile, i guardacoste tripolini sono in odore di pirateria), sia per meri motivi utilitaristici: dare a un buttafuori il compito di sbrigare le nostre faccende più sgradevoli significa attribuirgli (Erdogan insegna) un potere di ricatto che ci si rivolterà contro. Esistono responsabilità che vanno assunte in proprio, con coraggio, senza ipocrisie. Un’Unione degna della sua storia di civiltà, che dopo la pandemia si pone giustamente il problema di quanto blu sia il mare, non avrà vita lunga se non affronta con umanità e rigore anche la questione di quanto rossi siano i suoi fondali.