Le donne mancano spesso delle conoscenze per gestire la loro vita economica in maniera indipendente. Bene le iniziative di formazione dell’Ocse, nei Paesi poveri ma anche in Occidente, per colmare il gap
La battaglia per la parità di genere è anzitutto una battaglia di diritti umani, civili e sociali. È una battaglia nella quale, grazie a tante donne del passato (a cominciare, in Italia, dalle 21 «madri costituenti») e a organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite, si sono fatti molti progressi. Questi progressi però non bastano: in molte aree del pianeta le donne sono ancora apertamente assoggettate al dominio maschile, talvolta al limite della schiavitù, con soprusi, segregazioni, violenze fisiche e psicologiche, purtroppo anche dove l’uguaglianza è proclamata in via di principio. È giusto ricordare, nei nostri ricchi ma crescentemente diseguali e sfiduciati Paesi occidentali, che per molte di queste donne l’unica via di uscita è un disperato viaggio su un barcone; e non tanto per loro stesse quanto per i loro figli e figlie.
La strada per l’emancipazione è però anche una questione di responsabilità personale, che sempre si accompagna alla libertà di scelta. È il binomio indissolubile tra «libertà di» (fare/non fare, prendere una strada piuttosto che l’altra ecc.) e «libertà da» (bisogno, malattia, dipendenza ecc.): senza la seconda, la prima non ha valore giacché in situazioni di bisogno è di fatto impossibile esercitare scelte indipendenti; senza la prima, anche la libertà dai bisogni materiali essenziali è sterile, come dimostrano le ragazze iraniane che combattono non per il pane ma per essere libere di scegliere.
Alla base del processo di emancipazione femminile c’è anzitutto l’istruzione, che allarga gli orizzonti, apre gli occhi sulle opportunità negate, aumenta la consapevolezza dell’inaccettabilità del proprio stato, spinge a partecipare alla vita collettiva per cambiare leggi e consuetudini ritenute ingiuste. La parità nell’accesso all’istruzione per tutte le bambine e ragazze del mondo è uno degli obiettivi cruciali dell’agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile dell’Onu, ma sarà difficile che si raggiunga ovunque nel periodo stabilito. E ciò nonostante il divario educativo sia, in molti Paesi occidentali (tra cui il nostro), passato a sfavore degli uomini.
L’istruzione è ancora – a dispetto di una crescente evidenza contraria, in questo tempo di lavoro povero – lo strumento migliore per una più soddisfacente e remunerativa posizione lavorativa (e sociale). Ed è il lavoro dignitoso – che sempre richiede, poco o tanto, saperi e competenze – che consente di affrancarsi dal bisogno, programmare il futuro, decidere della propria vita. Senza istruzione, le donne sono inevitabilmente in balia di un uomo, che funge da autorità morale e legale e pretende di sapere e di imporre ciò che è bene per la donna che «gli è affidata», dalla società o dalla religione. Una parte essenziale dell’emancipazione è perciò l’indipendenza economica, per la quale un minimo di conoscenza economico-finanziaria rientra oggi nel concetto generale di alfabetizzazione per il mondo contemporaneo, non necessariamente per assecondarlo ma anche per migliorarlo (come si può cambiare qualcosa che non si conosce?). Per questo l’Ocse, da sempre molto attiva nei programmi di educazione finanziaria specificamente rivolti alle donne, sostiene iniziative formative in molti Paesi poveri e meno poveri affinché la popolazione – quella femminile in particolare – familiarizzi con i concetti base, funzionali a scelte più lungimiranti ed efficienti per sé (per esempio, nella gestione di attività imprenditoriali) e per i figli/e (finanziandone, per esempio, l’istruzione). Certo, si tratta di programmi di lungo termine che cozzano con la faciloneria di certi slogan e danno un senso all’«aiutiamoli a casa loro» con cui ci scarichiamo spesso la coscienza rispetto al dramma dei migranti, ma che sono essenziali per aiutare le trasformazioni profonde di cui molti Paesi, e non solo in Africa, hanno bisogno.
Le ricerche sull’educazione economico-finanziaria hanno infatti rivelato che proprio le donne – di tutte le età e di tutti i Paesi – mancano spesso del bagaglio minimo di conoscenze necessarie a gestire la propria vita in maniera più indipendente. Le risposte ai questionari lo rivelano, pur tenendo conto della minore autostima delle donne, che le porta spesso a scegliere il «non so» anche quando hanno una buona probabilità di dare la risposta corretta; alla loro mancanza di fiducia fa da contrappeso la maggiore (spesso eccessiva) sicurezza degli uomini. Così si spiega circa un terzo del divario di genere nella conoscenza finanziaria di base.
E gli altri due terzi? Dipendono da radici cosiddette «culturali», che riflettono però ignoranza, discriminazioni, stereotipi. Le differenze cominciano con il linguaggio rispettivamente usato nei confronti di bambine e bambini; nei giocattoli con cui li si fa giocare; nei libri suggeriti, spesso pieni di cliché; proseguono nell’incoraggiamento famigliare e sociale verso percorsi più scientifici per i ragazzi e più umanistici per le ragazze, con conseguenti minori opportunità su lavoro, progressione di carriera, retribuzione; sfociano in stereotipi e metafore linguistiche che finiscono per creare estraneità delle donne verso certe aree e allontanarle («non capisco niente di economia e finanza»), inducendole a scelte che non ne favoriscono l’inclusione finanziaria. Non ci si deve poi stupire se le donne sono penalizzate anche nell’età anziana, con pensioni mediamente più basse di quelle corrisposte agli uomini. Un quadro sociale e politico che rivela quanto ancora scarso sia il valore attribuito all’indipendenza economica delle donne.
Eliminare questo divario di genere, anche là dove esistono buone leggi sulla parità, richiede non soltanto appropriate scelte politiche – come l’introduzione di quote di genere, incentivi fiscali all’assunzione di donne, facilitazioni creditizie per investimenti in attività imprenditoriali – ma anche uno specifico impegno a realizzare programmi di educazione finanziaria, partendo dalle scuole. In una prospettiva di ciclo di vita i benefici di un simile investimento «si capitalizzano» nel tempo e possono essere cospicui. La mancanza di parità, al contrario, crea inefficienza e calpesta la meritocrazia. Il nostro Paese ha fatto buoni progressi, anche recentemente, in tema di parità ai vertici del potere ma molto resta da fare per una vera indipendenza economica, premessa per una più piena parità.