19 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Giovanni Belardelli

Il principio contenuto nell’articolo 1 della nostra Costituzione sembra essersi appannato nella concreta realtà del Paese. E’ un problema che va affrontato


L’Italia è ancora una Repubblica «fondata sul lavoro»? Mentre si moltiplicano i piani, gli auspici, le promesse, le commissioni e le riunioni (gli Stati generali, niente meno) — in sostanza, le parole — sulla ripresa economica, è forse il caso di ripartire da quel che sosteneva (e sostiene) l’articolo 1 della nostra Costituzione. Dal punto di vista giuridico, quell’affermazione ha sempre avuto un incerto significato: bellissima frase, disse subito Piero Calamandrei, ma cosa mai vorrà dire? Tuttavia, al di là del suo significato costituzionale, che restava alquanto indeterminato, quel richiamo al lavoro implicava cose concretissime per milioni di italiane e italiani da poco usciti dalla guerra. Significava la disponibilità a rimboccarsi le maniche, dapprima per ricostruire tutto ciò che era stato distrutto e poi per rendere possibile quell’esplosione collettiva di energie — dall’umile lavoro dell’operaio meridionale trasferitosi al Nord alla creatività di chi progettò e costruì con tempi oggi impensabili un’opera come l’Autostrada del sole — che fu all’origine del miracolo economico e del primo diffondersi in Italia della cosiddetta società del benessere.
Ma da allora qualcosa sembra essersi inceppato perché la centralità del lavoro, se è rimasta inalterata nel primo articolo della nostra Carta, si è appannata nella concreta realtà del Paese. Nei giorni scorsi una rilevazione di Eurostat ha confermato il dato — già noto da tempo ma mai oggetto di una qualche apprezzabile discussione pubblica — che vede l’Italia all’ultimo posto nella Ue per durata della vita lavorativa: 32 anni contro una media europea di quasi 36. Contemporaneamente i primi dati sugli effetti economici del lockdown indicano un aumento non soltanto dei disoccupati, largamente prevedibile, ma anche del numero degli inattivi, cioè di quanti (soprattutto donne) un lavoro hanno perfino rinunciato a cercarlo. La marginalizzazione del lavoro ha ovviamente ragioni economiche e politiche, che rinviano ai tanti nostri problemi mai affrontati benché noti da anni: la riforma della pubblica amministrazione, la lotta contro l’evasione fiscale, una seria manutenzione di infrastrutture e territori di un Paese fragile, la piaga di una giustizia lentissima ecc. Ma forse ha pure — si potrebbe azzardare, soprattutto — ragioni culturali, riposa cioè su un cambiamento di mentalità che ci ha reso molto differenti dai nostri connazionali degli anni 50 o 60.
Sempre più, infatti, siamo andati mettendo al centro delle nostre aspirazioni e dei nostri valori il reddito separato dal lavoro; forse già a partire dalle lotte sindacali dell’autunno caldo, che proclamarono la separazione tra la produttività e i salari, che andavano considerati, si disse, una variabile indipendente. Soprattutto, negli stessi anni ci avrebbero pensato le tante assunzioni a posti pubblici per fini clientelari ed elettoralistici, nonché le mille storture del welfare all’italiana, ad alimentare l’idea che si potessero distribuire benefici (anzitutto pensionistici) senza farsi vincolare da troppe preoccupazioni riguardo alle risorse disponibili, quasi avessimo scoperto la via per raggiungere il mitico Paese di Cuccagna. Da tempo — quanto meno da quel giorno del 1992 in cui il governo Amato si trovò costretto a prelevare nottetempo del denaro dai conti correnti degli italiani — la realtà si è presa la sua rivincita, senza che sia svanita però quella diffusa aspirazione a un reddito non frutto di lavoro ma di assistenza. Un’aspirazione che ha trovato poi una realizzazione con i Cinquestelle, dapprima grazie all’appoggio della Lega e poi, cambiato il governo, a quello del Pd che ha evidentemente sottovalutato anch’esso l’effetto devastante di una misura del genere per quegli italiani che ancora credono nella cultura del lavoro. Ma che in questa materia la mentalità del Paese sia mutata stanno a dimostrarlo anche i consensi che vengono da tempo accreditati alla Lega di Salvini, cioè a un partito che ha rinunciato a essere – com’era per la Lega Nord – il rappresentante di un’etica proiettata fin troppo darwinianamente verso la produzione e il lavoro per assumere invece il carattere, con «quota 100», dell’ennesima forza assistenzialista italiana.
L’invecchiamento della popolazione, e dunque la centralità (anche elettorale) dei pensionati, spiegano almeno in parte questo appannarsi dell’etica del lavoro. Ma se non si affronta questo problema, c’è il rischio che anche tante misure per il rilancio economico, sulla carta ottime, restino allo stadio delle buone intenzioni.

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