Solo oltre 60 milioni i residenti nella penisola ma se guardiamo oltre confine la comunità italiana ci appare come una collettività di quasi 150 milioni di persone
Ufficialmente la popolazione italiana conta circa 60 milioni di cittadini di cui il 90% residenti nel territorio italiano. Tuttavia, se interpretassimo differentemente i parametri di riferimento demografico, potremmo pensare il nostro paese in modo molto diverso: la comunità italiana ci apparirebbe come una collettività diasporica di quasi 150 milioni di persone, disperse su più continenti. Tutto ciò avrebbe implicazioni di policy assai rilevanti per la politica, l’economia, la società, la cultura e la sicurezza del nostro paese.
Il conteggio ufficiale della popolazione italiana esclude almeno due gruppi che sono di grande rilievo per la comunità italiana intesa in senso più ampio. Da un lato ci sono decine di milioni di persone che, pur avendo titolo alla cittadinanza per nascita in quanto italo-discendenti (ius sanguinis), sono in attesa dell’asseverazione amministrativa. Le liste di attesa in consolati «caldi» possono durare decenni, il che a sua volta sta lentamente ingolfando i tribunali amministrativi nazionali. Dall’altro ci sono altre decine di milioni di oriundi che, sebbene senza titolo alla cittadinanza, conservano ciononostante un legame con l’Italia.
Ci sono insomma più «italiani» fuori dall’Italia che in Italia. Mettendo insieme gli iscritti all’AIRE, gli aventi diritto alla cittadinanza e la restante parte degli oriundi ci si rende conto che la comunità all’estero è significativamente più numerosa di quella sul territorio nazionale. Si stima che soltanto tra Brasile e Argentina la comunità degli oriundi conti circa 60 milioni di persone, ai quali andrebbero aggiunti i 20 milioni di italo-americani e i milioni di italo-canadesi, italo-australiani etc.
Complessivamente nel corso della storia la diaspora italiana è stata sottovalutata: dimenticata (Corno d’Africa), trattata con disagio diplomatico (Desaparecidos italiani), con vergogna sociale (migrazioni storiche) o con un vago senso di tradimento e ingratitudine (fuga dei cervelli). Si pensi, per esempio, all’immaginario collettivo e a quanti pochi sono i film sulla diaspora italiana nel mondo. Il risultato è stato che gli oriundi si sono in larga parte disaffezionati alla patria di origine, integrandosi progressivamente nei paesi di accoglienza.
E tuttavia il dato demografico rimane un tema strategico di identità e di operatività per il posizionamento internazionale del paese. Molti sono i paesi dotati di significative diaspore: Israele, Gran Bretagna, Armenia, Cina. Ciò che caratterizza il caso italiano è la tendenziale mancanza di riconoscimento di questa dimensione diasporica.
A ciò si aggiunga che la tendenza demografica nazionale è negativa ormai da molti anni. Secondo il World Population Prospect dell’ONU, la riduzione demografica, soltanto in parte calmierata dai flussi di immigrazione, porterà nel 2100 la popolazione nazionale ad un ridimensionamento sotto i 40 milioni di persone.
La questione dell’identità nazionale ci pone davanti a dilemmi strategici. Cosa vogliamo essere? Siamo un paese di 60 milioni di persone centrate sul territorio nazionale o siamo una comunità diasporica diffusa in più paesi che va vicina alle 150 milioni di unità? Dall’interpretazione di tali dilemmi identitari dipendono molte delle scelte strategiche che il paese è chiamato a prendere. Se ci pensassimo come una comunità diasporica, avremmo una presenza diffusa su scala globale come pochi altri paesi al mondo e potremmo beneficiarne in termini politici (quanti politici di origine italiane), economici (quante imprese e consumatori del made in Italy), sociali (quanti studenti di origine italiana) e di sicurezza (quanti punti di informazione e influenza).
Il perimetro della comunità nazionale si allargherebbe. La prima città italiana non sarebbe più Roma, ma probabilmente San Paolo o Buenos Aires. Ci sarebbero continue contaminazioni linguistiche, gastronomiche, sportive (circa metà della nazionale argentina che ha vinto il mondiale ha passaporto italiano, ad iniziare da Lionel Messi). Ci sarebbero rischi, ma anche tante opportunità. Ma dovremmo poi essere in grado di ricostruire un rapporto interrotto molto tempo fa con i nostri compatrioti (o compaesani che dir si voglia) e sviluppare efficaci politiche di ingaggio, magari imparando dagli altri paesi diasporici che prima di noi hanno riconosciuto il valore della loro diaspora nazionale.