21 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Enzo Moavero Milanesi

Nel nostro Paese si sta svolgendo una campagna elettorale che oscilla fra la condivisione di astratti ideali comunitari e i distinguo su tanti aspetti concreti

In Europa, sta entrando nel vivo una stagione di riassetto complessivo che non ha precedenti negli ultimi dieci anni. Se ne discute da tempo, nei dibattiti ufficiali, nelle stanze riservate dei contatti informali politici e tecnici, nei circoli di studio ed elaborazione teorica. I prodromi sono soprattutto due: il superamento della grave crisi economica e finanziaria, con l’inizio di una certa ripresa; e l’esito dell’anno di elezioni 2017, durante il quale si è votato in molti Paesi, con risultati positivi per i partiti filoeuropei. Si pensava che la fase di cambiamento dovesse aprirsi agli inizi del 2018, con il nuovo governo tedesco, ma la sua difficoltosa formazione l’ha ritardata.
A spingere la riforma dell’Unione Europea sono Francia e Germania, il consueto binomio che è all’origine del processo d’integrazione del vecchio continente. La scelta britannica di uscire dall’Unione elimina il più agguerrito concorrente della visione di convergenza renana che sostiene un sistema di economia libera, attenta agli aspetti sociali, nel quale le autorità pubbliche mantengano compiti rilevanti.
Le idee in discussione fra i partner dell’Unione Europea sono piuttosto note. Un punto cardine è che bisogna lavorare nell’ambito degli attuali Trattati base, perché modificarli sarebbe troppo complicato e insidioso; si ritiene, peraltro, opportuno procedere con le collaudate «diverse velocità», consentendo ai Paesi che non intendano aderire a certe azioni comuni di restarne fuori. Al fine di aumentare la crescita economica e l’occupazione, i volani prioritari sono tre: il mercato unico, per liberalizzare di più, in particolare, il comparto dei servizi che ha un ampio potenziale, specie per energia e digitale; l’innovazione per diffondere le tecnologie avanzate e l’inerente formazione professionale; l’unione economica e monetaria e i suoi parametri, per vincolare ulteriormente i conti pubblici degli Stati, la loro possibilità di indebitarsi, i rispettivi margini tributari.
Si insiste anche sulla necessità di agire per la sicurezza, con un’intensa collaborazione fra forze di polizia e magistrature nazionali e un salto di qualità nel settore della difesa. Per far fronte agli epocali flussi di migranti, l’opzione è di intervenire nei luoghi da cui partono e di regolare la dislocazione sul territorio di coloro che vengono accolti.
Di tutto ciò, come sappiamo, si parla da mesi, ma adesso arriva il momento delle decisioni, come dimostrano: le recenti proposte della Commissione europea, l’oramai vicino negoziato sul bilancio Ue «post 2020» e il fitto calendario dei prossimi vertici fra i leader e delle riunioni ministeriali. Davanti a un simile fermento di iniziative, nel nostro Paese si sta svolgendo una campagna elettorale che, in prevalenza, oscilla fra la condivisione di astratti ideali europeisti e i distinguo puntuali su tanti aspetti concreti dell’Unione. In altre parole, quasi tutti concordi nel sostenere una qualche utilità di quest’ultima, in linea di principio e di orizzonte, ma quasi tutti critici, con toni diversi, sul suo operato degli ultimi anni.
Il tratto comune, peraltro, resta sovente la genericità delle affermazioni pro o contro. Un’impostazione che induce svariati esponenti dei partiti in lizza a mal conciliare due profili di capitale importanza in politica: la visione d’insieme e di più lungo periodo, con l’attenzione al dettaglio e al da farsi in tempi brevi. Non è un’omissione da poco in periodo elettorale, perché può fuorviare l’informazione agli elettori e la loro esatta presa di coscienza.
La realtà europea è articolata, complessa da capire, facile da mistificare. Per esempio, le funzioni attribuite all’Unione Europea sono capillari in alcuni settori (economia, agricoltura, industria, ambiente, salute), mentre sono minime in altri (tasse, migrazioni e asilo, cooperazione giudiziaria e di polizia, difesa, affari esteri): così l’Europa appare, a seconda dei casi, invadente ovvero latitante e inconcludente.
Ancora un esempio: nella narrativa più diffusa, quando una misura Ue è ben accolta dai cittadini, i governi la presentano come frutto del proprio lavoro; al contrario, se è poco apprezzata o produce effetti indesiderati, pur avendola magari votata, si grida contro l’imposizione dei partner o delle euro-burocrazie. Una distonia comportamentale a volte voluta, furbescamente, a volte inconscia, per scarsa conoscenza dei meccanismi decisionali.
Invece, nell’Unione bisogna badare al quotidiano e ai dettagli, interagendo abilmente, non bisticciando o autoescludendosi. Al riguardo, gli Stati membri e i loro governi hanno costantemente un ruolo centrale: il Consiglio europeo che riunisce i leader, stabilisce gli indirizzi politici; e il Consiglio Ue, dove siedono i ministri per la materia in discussione, vota l’adozione di tutte le regole che ci vincolano. Considerato, allora, il denso e cruciale calendario di lavori dell’Unione Europea, noi elettori faremmo bene a chiedere a chi si candida a responsabilità di governo di uscire dall’indeterminatezza e dagli slogan per esporci la sua posizione sui diversi punti dell’agenda Ue, entrando nello specifico con la necessaria competenza. Farlo ci permette una verifica che è un preciso dovere democratico, perché — sia detto con franchezza, ci piaccia o meno — il nostro futuro dipende da quanto sarà deciso in Europa; con noi, se attivi e influenti, o senza di noi.

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