Fonte: Corriere della Sera
di Michele Salvati
Neppure i sovranisti dei Paesi dell’euro propongono di abbandonare la valuta, ma più per paura del disastro che ne potrebbe conseguire che per convinzione
Chi ritiene che il destino del nostro Paese non debba essere dissociato da quello dell’Unione Europea ha tirato un respiro di sollievo per i risultati delle elezioni del 26 maggio. Una solida maggioranza parlamentare «europeista» esiste (popolari, socialisti, liberali e probabilmente anche verdi) e può prendere il posto della tradizionale maggioranza tra popolari e socialisti, che non esiste più. Ci sono allora buoni motivi per essere soddisfatti?
Limitarsi a constatare la netta prevalenza a Strasburgo dei partiti «europeisti» sui «sovranisti» può voler dire molto poco se si cerca di valutare l’indirizzo che prenderanno le prossime politiche europee, in parte condizionate dalla maggioranza parlamentare risultante dalle elezioni, ma soprattutto dal Consiglio dei ministri dell’Unione e da quello dei capi di Stato e di governo. Possiamo dedurre da questo esito elettorale che gli equilibri politici europei si siano spostati a favore di chi invoca «più Europa», un maggiore bilancio europeo, più forti cessioni di sovranità nazionale nelle materie che veramente contano? La distinzione tra partiti/Paesi «sovranisti» ed «europeisti» non ci dice molto in proposito, se non che a livello popolare (e dunque parlamentare) un sorpasso sovranista non c’è stato e non è in vista nel prossimo futuro. Ma i sovranisti — concentrati in Gran Bretagna, Italia e al confine nord-orientale dell’Unione — sono solo una propaggine estrema tra i partiti/Paesi che vogliono fermare o invertire il progresso verso un’Unione «sempre più stretta». E neppure loro, se appartengono al gruppo che ha adottato l’euro, propongono di abbandonarlo. Per paura del disastro che ne potrebbe conseguire, più che per intima convinzione.
Se è così, gli avversari più ostici di un progresso verso istituzioni sovranazionali più efficaci, e che assicurino una maggiore convergenza nella crescita di tutti i Paesi europei, stanno all’interno degli stessi «europeisti», nei Paesi che sinora non hanno visto prevalere forze politiche che mettano radicalmente in dubbio l’appartenenza all’Unione o all’Eurogruppo. Stanno nella cosiddetta Lega Anseatica di piccoli Paesi nordici e baltici, capitanata dall’Olanda. Stanno soprattutto in Germania, il perno essenziale, insieme alla Francia, dell’Unione europea. Insomma, stanno nei Paesi che, per gli indirizzi economico-politici sinora adottati dall’Unione, per le maggiori risorse economiche e istituzionali di cui dispongono, per le migliori politiche interne che attuano, hanno accentuato il loro distacco con i Paesi più deboli. Anch’essi sono però minacciati da movimenti nazionali populisti e sovranisti e di conseguenza sono molto riluttanti — è un eufemismo — a procedere verso un’«Unione sempre più stretta».
Ma un’ Unione «un po’ più stretta», «a little closer Union», è necessaria per la stessa sopravvivenza dell’euro, o quantomeno per la sua sopravvivenza in tutti i Paesi che l’hanno adottato: è proprio escluso il rischio di una «Italexit»? L’euro resta in pericolo, nonostante quanto si è fatto dopo la crisi greca, in conseguenza dell’autonomia nazionale delle politiche finanziarie e fiscali garantita dai trattati ai singoli Paesi membri e della scarsa disponibilità, frutto della sfiducia reciproca, a rinunciarvi anche in piccola parte. Il meccanismo europeo di stabilità (Esm), il cosiddetto Fondo salva Stati, può risultare insufficiente nei confronti di una crisi grave e il progetto dell’Unione bancaria è incompleto. L’interazione tra l’insolvibilità delle banche e quella degli Stati non è stata risolta e questa volta potrebbe non bastare il famoso «whatever it takes» di Mario Draghi (26 luglio 2012) e la politica monetaria estremamente espansiva in seguito adottata. Da allora sono passati quasi sette anni, un tempo sufficiente a creare istituzioni europee che, quantomeno, mettessero in sicurezza la moneta comune, e queste non ci sono ancora. Ma soprattutto sette anni non sono bastati al nostro Paese per interiorizzare i vincoli che l’adesione all’euro comporta.
L’unico importante leader europeo a spingere in direzione di un’Unione «un po’ più stretta», pur tra contraddizioni dovute alla tradizione nazionalista del suo Paese, è Emmanuel Macron. Ma se resta isolato o con alleati deboli in questa battaglia — per non dire di quelle che sta affrontando su altri temi appartenenti al Sancta Sanctorum delle sovranità nazionali — difficilmente riuscirà a piegare le resistenze della Germania: oltre al peso della sua indispensabilità in qualsiasi equilibrio europeo, essa può avvalersi dell’appoggio dei Paesi nordici e baltici e del suo potere di influenza sui sovranisti dell’Est europeo, strettamente legati all’industria tedesca. Macron avrebbe bisogno di alleati forti tra i Paesi che intendono modificare lo status quo, e sinora il suo (possibile) alleato di maggior peso sembra essere la Spagna. Poteva esserci anche l’Italia, e qui si misura appieno la gravità della posizione politica assunta dal governo giallo-verde. Una posizione suicida, che esclude il nostro Paese da gran parte dell’influenza che le sue dimensioni e la sua storia potevano consentirgli. Deus quos vult perdere dementat.