Al di là dei tanti problemi, dai dati emergono segnali positivi sulla crescita. Però nei prossimi anni non si deve perdere l’abbrivio che si è venuto a creare nel dopo Covid
Idati dell’ultimo rapporto Istat confermano che l’Italia, negli ultimi anni, è cresciuta più degli altri Paesi europei. Soprattutto, più di Francia e Germania. Un dato sorprendente che spiazza ogni previsione. Chi lo avrebbe detto, durante l’emergenza pandemica, che le cose avrebbero potuto andare così? Le ragioni di questo risultato non sono del tutto chiare. Diversi fattori hanno giovato: la reputazione — sul piano interno e esterno — della premiership di Mario Draghi; l’afflusso di ingenti risorse pubbliche (prima i fondi per contrastare gli effetti della pandemia — con la rimozione dei vincoli di bilancio imposti da Maastricht — e poi il Pnrr); il veloce ed efficace adattamento degli italiani di fronte a una crisi che ha cambiato tante cose. Sta di fatto che, dopo vent’anni di galleggiamento, l’Italia ha scalato la classifica.
Ovviamente, non è il caso di farsi troppe illusioni. Ed è lo stesso rapporto Istat che ci spiega perché: al di là delle luci, ci sono ombre che hanno a che fare con alcuni problemi strutturali che, se non affrontati, sono destinati a compromettere il nostro futuro. A pesare sono soprattutto la questione demografica — che nasce dalla combinazione tra invecchiamento e calo della natalità — e quella giovanile: secondo l’Istat, quasi un giovane su due (47,7 per cento dei 18-34 enni) mostra almeno un segnale di deprivazione in uno dei domini chiave del benessere (istruzione e lavoro, coesione sociale, salute, benessere soggettivo, territorio). Mentre 1.700.000 giovani non lavorano e non studiano.
È bene tenere distinti i due piani: il dato sulla ripresa economica, di tipo congiunturale, che segnala la vitalità di un Paese da molti considerato sempre «sbagliato»; e i problemi strutturali, che sono invece il portato di due decenni di non crescita. Vent’anni in cui il Paese è come se avesse rinunciato a guardare avanti.
Ciò significa che, al di là dei tanti problemi, l’Italia rimane un Paese dalle grandi potenzialità, come confermano i 600 miliardi di esportazioni (in larga parte dovute alle piccole e medie imprese, una vera eccellenza italiana) e l’andamento del turismo (che si avvantaggia di un patrimonio secolare di cui siamo non così buoni amministratori). Ma anche l’elevata qualità del sistema universitario (dove, secondo i dati usciti in questi ultimi giorni, l’Italia si piazza al quarto posto, dietro solo Usa, Uk e Cina).
Se si parte da questa constatazione — che non è per nulla scontata — il tema dei prossimi anni è quello di non perdere l’abbrivio che si è venuto creare nel dopo Covid. Il che concretamente significa almeno due cose.
In primo luogo è importante che la ricchezza generata dalla crescita sia distribuita e reinvestita. Da molti anni i salari sono stagnanti e l’inflazione degli ultimi mesi (da noi più alta che altrove) ha ulteriormente ridotto il potere di acquisto delle famiglie. I dati sulle dichiarazioni dei redditi del 2022 sono impietosi: oltre alla persistenza di una evasione diffusa, sono tanti quelli che non ce la fanno. Col risultato che la quota degli italiani che sostiene l’ingente spesa pubblica rimane ridotta: i titolari dei redditi fino a 29 mila euro sono il 77,8% degli italiani e versano il 25,74% di tutta l’Irpef. Per confermare e rafforzare i risultati degli ultimi anni, c’è bisogno di «fare squadra» creando un nuovo «patto sociale» che riconosca i diritti ma anche la contribuzione di tutti (impresa e lavoro) allo sviluppo del Paese.
Il secondo punto riguarda la capacità di identificare alcune scommesse a forte contenuto simbolico che riescano a delineare il nuovo modello di sviluppo da costruire insieme. Scommesse che costituiscano dei punti di riferimento per l’intera società. Come furono nel dopoguerra la costruzione della autostrada del sole o il piani casa di Fanfani. E che vanno identificate rispetto ai due temi capitali della transizione ecologica e generazionale.
Sul primo tema, vanno individuati grandi obiettivi di sistema: per esempio, si potrebbe puntare a rendere energeticamente autonome Sicilia e Sardegna o mettere mano al livello di inquinamento (senza uguali in Europa) della pianura padana. Decisioni darebbero cautamente il senso di una direzione comune.
La questione giovanile, poi, è la chiave per contrastare il declino demografico in una prospettiva di lungo periodo. Il blocco del transito generazionale che sta colpendo i giovani italiani nasce dall’intreccio perverso tra percorsi di studio spesso inadeguati, nuova domanda di senso del lavoro inascoltata, scarso riconoscimento economico dei più giovani. Per sciogliere questo nodo, serve un’azione coraggiosa e integrata che tocchi contemporaneamente diversi aspetti: revisione delle tipologie contrattuali per gli under 40; deciso investimento nel comparto formativo; accesso all’acquisto/affitto della prima casa; armonizzazione tra la vita lavorativa e famigliare. Più che una legge, serve una collaborazione creativa tra i diversi soggetti sociali (imprese, sindacati, pubblica amministrazione, scuola, sistema finanziario, etc.).
Come sappiamo, il nostro Paese non ha grandi capacità di coordinamento. Ma, come suggeriscono gli ultimi anni, l’Italia si supera quando riesce a compattarsi davanti a sfide impegnative e comuni. È questa la direzione da prendere. Dopo molti anni, l’Italia torna ad avere delle chances. Sarebbe davvero imperdonabile sprecarle.