19 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Andrea Riccardi

In vigore dal primo gennaio 1948, la Carta sancisce il ripudio della guerra per la risoluzione delle controversie internazionali. Ma il Paese non è disarmato


Il primo gennaio di settant’anni fa entrava in vigore la Costituzione repubblicana. Pochi hanno ricordato, tra i principi fondamentali, quello affermato nell’articolo 11: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni della sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni…». L’articolo si conclude con l’impegno a favorire le organizzazioni internazionali a scopo di pace. I costituenti guardavano alle Nazioni Unite, la cui Carta (approvata nell’ottobre 1945) prevedeva la rinuncia alla forza per risolvere le controversie internazionali. E l’Italia aspirava a entrare all’Onu, come disse chiaramente Leo Valiani nel dibattito. Anche se l’ingresso avvenne solo nel 1955, in buona parte per il veto sovietico.
Qualcuno avrebbe ironizzato sulla scelta «costituzionale» italiana per la pace, attribuendola alle scarse capacità belliche o al diffuso spirito dell’8 settembre. La sensibilità ai temi della pace è stata attribuita principalmente alla tradizione cattolica del Paese, che lo avrebbe «disarmato». C’è un ovvio radicamento in questo sentire che, peraltro si espresse con la creazione nel 1968 della Giornata mondiale per la pace da parte di Paolo VI, ogni primo gennaio, giunta quest’anno alla cinquantesima edizione. Ma proprio nel 1947, ci fu una convergenza impressionante di tutte le parti politiche e ideali nell’approvazione dell’articolo 11, rivelatrice di qualcosa di profondo. I costituenti preferirono parlare di ripudio della guerra da parte dell’«Italia» (come nazione) più che dallo Stato. Non un mero auspicio, ma quasi una caratterizzazione dell’identità italiana come si è visto successivamente.
Giuseppe Dossetti, proponente di quello che divenne l’articolo 11, sottolineava come il testo rispecchiasse il sentire generale di allora, dominato dalla memoria dell’«evento guerra»: 55 milioni di morti, una tragedia di gran lunga superiore ai 9 milioni del primo conflitto. Quella era una generazione segnata dall’orrore della guerra, tanto che si volle cambiare il testo iniziale che parlava di «rinuncia alla guerra» in «ripudio» (con «accento energico», diceva Meuccio Ruini, presidente della commissione dei 75). Era evidente la volontà di segnare la profonda cesura storica dal nazionalismo e dall’imperialismo, incarnati dal fascismo e dalle sue guerre. Eppure erano passati poco più di dieci anni dall’aggressione all’Etiopia, che aveva trovato tanto consenso in Italia, e dalla terribile repressione del viceré Graziani in quel Paese (tra cui i massacri di Debra Libanos, su cui ancora oggi si stenta a fare luce).
Si verificò una vasta convergenza dei costituenti sull’articolo 11 (Togliatti parlò di «compromesso» sulla Costituzione, pur in senso alto). Accanto ai cattolici e ai socialcomunisti, si fecero sentire la sensibilità federalista di azionisti e repubblicani, i valori europei e antimilitaristi evocati dal Manifesto di Ventotene. Furono espresse solo poche perplessità, più che opposizioni. Togliatti appoggiò la proposta di Dossetti. Per lui andavano trovate «forme di sovranità differenti da quelle vigenti». La Pira notò che così si riconosceva, oltre lo Stato, l’esistenza della comunità internazionale. L’articolo 11 apriva una «finestra» sul futuro, come disse in modo fulminante Pietro Calamandrei: «Si riesce a intravedere, laggiù, quando il cielo non è nuvoloso, qualcosa che potrebbero essere gli Stati Uniti d’Europa e del Mondo».
C’è stata, infatti, una storia italiana di lavoro per la pace sui diversi scenari internazionali: dall’immediato dopoguerra segnato dal conflitto e la sconfitta, alla Guerra fredda, all’unificazione europea ed infine al mondo globale e multipolare. Un anno dopo l’entrata in vigore della Costituzione, l’Italia, aderendo alla Nato, avrebbe avuto un saldo ancoraggio occidentale (vissuto con coerenza) in un mondo ormai diviso dalla Guerra fredda. Il che non le avrebbe impedito di ritrovarsi in iniziative originali di ricerca della pace, talune — fin dagli anni Cinquanta — legate alla figura di La Pira, sindaco di Firenze, come i congressi fiorentini per la pace o sul Mediterraneo (e l’allora inedita proposta di dialogo tra israeliani e arabi). Era una simbiosi di iniziativa della società civile e di impegno del governo. Da parte sua, il Partito comunista avrebbe condotto una politica internazionale di attenzione e influenza nei Paesi decolonizzati, non senza collegamenti con il governo. L’Italia ha ritagliato un suo ruolo di pace anche in tempi di Guerra fredda. Si pensi alla pace in Mozambico, firmata a Roma proprio venticinque anni fa, nel 1992.
Ma ormai siamo in uno scenario internazionale nuovo, in cui l’impegno italiano assume caratteri diversi. Dagli anni Novanta, l’Italia interpreta un efficace ruolo di pace, di cui le missioni militari (oggi in 22 Paesi) sono uno strumento decisivo. Quella del 1982 in Libano rappresentò la svolta — il primo intervento all’estero dopo la Seconda guerra mondiale — che aprì la strada a una proiezione italiana su scenari vicini come i Balcani o il Mediterraneo, ma anche lontani come l’Afghanistan. Segue, proprio in questi mesi, un nuovo posizionamento italiano nella fascia sahariana-saheliana, di cui fanno parte l’apertura delle ambasciate in Niger e Burkina Faso e l’annunciata missione militare in Niger. Ne emerge il profilo di un Paese non disarmato, ma responsabile in un mondo divenuto complesso e senza «imperi» regolatori.

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