Fonte: Corriere della Sera
di Paolo Mieli
A Tripoli sta emergendo un problema che si è già posto in Siria. Nell’impossibilità — a causa di vicende pregresse — di creare una salda e organica coalizione anti Isis, ci siamo visti costretti a combattere assieme a dei non alleati con i quali, a guerra conclusa, non è detto che tutto vada per il verso giusto
Cosa dobbiamo fare con Khalifa Haftar? Il settantatreenne generale fu a fianco di Gheddafi già nel 1969 (quando di anni ne aveva ventisei) al momento del colpo di Stato contro il re Idris al-Senussi. Con il «colonnello» rimase per decenni, fino al 1987, all’epoca della catastrofica campagna nel Ciad: qui, a conclusione della battaglia di Ouadi Doum, venne catturato assieme a trecento dei suoi soldati. Non si perse d’animo e, incoraggiato dai suoi carcerieri, mise su un drappello di duemila detenuti da impiegarsi in un golpe contro il rais di Tripoli.
L’impresa non riusce, Haftar in patria fu condannato a morte, ma, in compenso, fu autorizzato dagli Usa ad espatriare in Virginia. Lì restò dal 1990 al 2011 e gli fu concesso di diventare cittadino americano. Secondo molti all’epoca avrebbe vissuto a Langley e sarebbe stato arruolato dalla Cia. Probabile. Ma le amministrazioni statunitensi, fossero repubblicane o democratiche, non hanno mai puntato esplicitamente su di lui, neanche nella fase di maggior contrapposizione al regime gheddafiano. E i collaboratori di Obama hanno sempre smentito di aver avuto alcunché da spartire con Haftar. Tornato in Libia nel 2011, al momento della deposizione e dell’uccisione di Gheddafi, il generale non trovò una collocazione che gli si addicesse.
Rientrò in America per poter poi essere di nuovo a Tripoli nel 2013 quando ottenne la protezione dell’egiziano Abdel Fattah Al Sisi, che aveva appena deposto il capo di Stato Morsi. Forte di questo appoggio, nel 2014 tentò, con l’«Operazione Dignità» di rovesciare il regime dei Fratelli musulmani impadronitisi di Tripoli. Fallì, ma le elezioni del 26 giugno 2014, nonostante molteplici irregolarità, punirono i suoi nemici islamici. Questi ultimi, tuttavia, rimasero al potere. Talché il Parlamento fu costretto a trasferirsi a Tobruk e Haftar ne divenne il difensore.
È a quel Parlamento che adesso le Nazioni Unite si sono rivolte chiedendogli di dare luce verde al governo di pacificazione nazionale guidato da Fayez al-Serraj. Compagine, quella guidata da Serraj, che, accantonato il divisivo Haftar, dovrebbe condurre una guerra senza pietà contro le milizie Isis radicatesi a Sirte. Anche con il nostro concorso. Ma metà di quei deputati che due anni fa furono costretti a riparare a Tobruk non ne vuole sapere di questa prospettiva e resta fedele ad Haftar. Sostiene l’inviato dell’ Onu, il tedesco Martin Kobler, che al parlamento di Tobruk il quorum necessario per varare l’operazione Serraj sarebbe stato raggiunto il 26 febbraio, non fosse per una «minoranza chiassosa» che avrebbe intimidito buona parte dei parlamentari. Kobler in ogni caso garantisce che adesso il presidente Aguila Saleh è impegnato a favorire un voto corretto. Sarà.
In attesa di questo «voto corretto», Serraj è costretto a starsene al riparo in una base navale tripolina mentre la Cirenaica di Haftar ottiene armi, batte moneta e inizia a vendere il suo petrolio. Le sue truppe hanno riconquistato Bengasi, assediano Adjabiya e puntano verso la capitale islamista, Sirte. Si sta creando una Libia cuscinetto sostenuta da Egitto, emirati arabi e, anche se non ufficialmente, dalla Francia che è già all’attacco contro la capitale libica dell’Isis, mentre la parte tripolina sotto la guida di Serraj, appoggiata da Italia, Gran Bretagna e Turchia, fatica a mettere in piedi un’offensiva di pari portata. Haftar, una volta espugnata Sirte, vorrebbe una sorta di secessione della Cirenaica. Separazione che lascerebbe il grosso delle milizie jihadiste e dei gruppi terroristici on Tripolitania, proprio di fronte all’Italia, prospettiva poco attraente per il nostro Paese.
Per questo il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, gli ha chiesto di fermarsi e di unirsi agli sforzi della comunità internazionale per sostenere il nuovo governo. La risposta è stata che a Bengasi persone riconducibili al generale hanno bruciato in piazza bandiere italiane. E la cosa si è ripetuta a Tobruk. Anche il nostro ministro degli Esteri Paolo Gentiloni ha lasciato intendere di preferire che Sirte sia liberata da truppe del governo libico insediato dalle Nazioni Unite. Ma Haftar e con lui l’Egitto sono già all’attacco ed è singolare chieder loro di sospendere le operazioni contro Sirte in attesa che arrivino i nostri. È come se nella primavera del 1945 gli angloamericani avessero implorato i russi di ritardare la conquista di Berlino per dar tempo a loro di essere quantomeno presenti al momento della liberazione (nei fatti, furono i sovietici che pretesero e ottennero di arrivare per primi nella capitale tedesca).
In Libia si sta creando un problema che si è già posto in Siria. Nell’impossibilità — a causa di vicende pregresse — di creare una salda e organica coalizione anti Isis, ci siamo visti costretti a combattere assieme a dei non alleati con i quali, a guerra conclusa, non è detto che tutto vada per il verso giusto. Già nel corso dello scontro, tra i nostri commilitoni di oggi si riescono a intravedere i nemici di domani. Fu in qualche modo lo stesso anche per la grande coalizione che nel ’45 sconfisse la Germania hitleriana destinata a dividersi nella successiva guerra fredda. Niente di inedito o di sorprendente. Basta esserne consapevoli. Per quel che ci riguarda, anche a seguito della severa e più che giustificata condotta italiana nel caso Regeni, si configura un futuro non amichevole nei rapporti tra Italia ed Egitto.
E la nostra richiesta ad Haftar, l’uomo degli egiziani, di fermarsi ad aspettarci prima di colpire al cuore la principale città libica di al-Baghdadi, rischia di apparire come qualcosa di più e di diverso da una normale istanza di coordinamento militare. Anche perché viene fatta con argomenti e toni non propriamente bonari. Mustafa Taghdi — il più importante negoziatore di parte tripolina per conto del Partito della giustizia e della costruzione (Fratelli musulmani) sostenitore di Serraj — ha pubblicamente definito Haftar «un criminale». A suo dire, nell’attacco a Derna, «il generale ha colpito i gruppi che avevano cacciato l’Isis» e provocato la morte di numerosi civili. Mustafa Taghdi ha promesso all’uomo di al-Sisi, una volta che la Libia sarà «democratica e giusta«, di essere «incriminato e portato dinanzi alla Corte penale internazionale». Dove dovrà rispondere della colpa di avere «le mani sporche di sangue».
Per quel che riguarda il suo destino, ha annunciato Taghdi, si può dire fin d’ora che «è segnato». Quanto a noi, siamo sicuri che Haftar meriti gran parte delle contestazioni mossegli da Taghdi e lo stesso discorso può valere per il suo grande protettore del Cairo. Come anche, però — e questo va messo bene in chiaro — per qualsiasi alleato siamo stati o saremo obbligati a sceglierci da quelle parti. Detto questo, invitarli a combattere sotto le bandiere dell’Onu annunciando che — a fine conflitto — li manderemo a processo per crimini di guerra e che la sentenza è già scritta, non sembra essere il modo migliore per guadagnare alleati stabili nella lotta contro il califfato.