19 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Salvatore Brigantini

Cresciamo meno degli altri partner Ue. I surplus commerciali e quelli dei conti statali danno alla Germania spazi di bilancio che la rafforzano ancora


Non fosse per la guida, audace e cauta insieme, del presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, l’eurozona da tempo sarebbe in pezzi; a tale infausto esito tanti credevano, ignari del grande investimento, psicologico prima che economico, dei fondatori. Superata quella fase, essa ha oggi problemi nell’assetto di governo che ne bloccano le potenzialità, minacciando tutto il progetto.
Il presidente francese Emmanuel Macron ha ricordato, ritirando ad Aquisgrana il premio Charlemagne, la genesi dell’euro, tutta politica. Quando il cancelliere tedesco Helmuth Kohl chiese l’assenso delle potenze vincitrici della II Guerra Mondiale alla riunificazione, François Mitterrand subordinò il sì francese al varo della moneta unica, cui un grande europeo, Jacques Delors, lavorava; il governo dell’euro, condiviso con altri, avrebbe tolto la guida solitaria della politica monetaria europea alla Germania, divenuta con la riunificazione il baricentro economico e geografico della Ue. Scoppiata la grande crisi nel 2008, le banche in difficoltà richiesero aiuti ingenti in Irlanda e Spagna, dove i debiti pubblici, prima bassi, sono esplosi. Si sbaglia dunque ad attribuire la crisi a quel debito pubblico che, Italia a parte, ne è conseguenza, non causa. Sulla Grecia le banche francesi e tedesche erano esposte per cifre folli, ma nessuno gridò al moral hazard quando nel ‘10 tutti i Paesi dell’eurozona le tirarono d’impaccio; pochi mesi dopo a Deauville Francia e Germania decisero, da sole, che i creditori imprudenti, appena salvati, dovevano d’allora in poi pagar pegno. Oggi l’euro, sottovalutato in Germania, ne aiuta le esportazioni ma è sopravalutato altrove, non solo in Italia, dove pure l’export «tira»; la grande vincitrice, in testa al gruppo, corre sempre più veloce e sprona gli altri a starle dietro, ma cresce la distanza fra il ricco Centro (la geografia conta!) e la Periferia povera. Si rovescia il sofisma di Zenone: Achille corre leggero, sempre più veloce e la tartaruga, gravata dal debito, perde terreno. L’Italia cresce dell’1,5% l’anno, contro il 2,5% dell’Eurozona.
I surplus commerciali e nei conti pubblici danno a Berlino spazi di bilancio che la rafforzano vieppiù. Noi, che ne siamo privi, arretriamo. Ancora, la conseguenza si fa causa; il fatto che la distanza aumenti, invece di accelerare l’integrazione, la blocca! Abbiamo così un’Unione bancaria senza assicurazione europea sui depositi, del bilancio dell’Eurozona non si parla, si adombra invece un astuto sistema automatico di ristrutturazione del debito che, per evitare futuri incendi, li appiccherebbe subito! Riemergono la sfiducia fra Stati e il vieto nazionalismo che i padri dell’Europa vollero abbattere. Ad ognuno si impone di risolvere nel recinto domestico problemi che han solo soluzioni europee; una volta escluse quelle, però, l’alternativa è nefasta. Sono gravissime le responsabilità nostre; da prima dell’avvio dell’euro perdiamo terreno rispetto agli altri europei. Abbiamo diciannove anni, sugli ultimi venti, di saldi primari attivi, cioè conti in nero prima degli interessi sul debito, ma non basta; la fatica di Sisifo, senza eguali nella Ue, non tocca la montagna del debito. Ancora pesa la fiammata degli anni ‘80, quando esso balzò dal 60% al 100% del Pil; oggi è al 130%, anche per i salassi subiti nel salvare banche, italiane e straniere. Di quel cumulo di debiti è responsabile la generazione in uscita, non chi, giovane oggi, paga per tutti. Nessuno però ha mai «ripagato» il debito pubblico; esso deve poter essere sopportabile da un Paese in crescita, ma a questa si dà priorità solo a parole. È in difetto la sfera pubblica per ben note ragioni, ma anche quella privata, per cause invece neglette. La macchina pubblica, in un mondo in caotico mutamento, deve rendere ai cittadini i servizi per cui pagano le tasse: il punto non è abbassarle, ma farla funzionare! È però dalle imprese private che può venire, con il lavoro, la crescita; in mancanza, il debito resta lì. Ostaggi di proprietà familiari che ne frenano lo sviluppo, le imprese restano sotto la scala necessaria per investire; ristagna la produttività che, scrive il premio Nobel Paul Krugman, nel lungo termine tutto determina. La chiave sta lì, ma l’astrattezza del M5S ed il trasporto leghista per il «piccolo è bello» causano preoccupazione. Se il nodo non si scioglie, l’integrazione si blocca; il convoglio europeo, incapace di avanzare, può deragliare.
Il 4 marzo ha vinto chi prometteva di tutto, prescindendo dai vincoli, con il mai dismesso sogno (un incubo!) del ritorno alla lira, svalutabile ad nutum; ciò alimenta le diffidenze verso di noi. Sul Corriere Enzo Moavero Milanesi (8 maggio) elenca i punti su cui il Paese deve farsi valere a Bruxelles e Maurizio Ferrera (10 maggio) delinea il viluppo di nodi su cui tace il negoziato per il governo. Chi lo conduce farà bene a leggere il discorso di Draghi all’Istituto Universitario di Firenze (11 maggio).
L’elefante nella stanza, ora quieto, potrebbe presto agitarsi. Se torneremo al voto, andranno ben chiarite le alternative: vorremo un governo responsabile, credibilmente ancorato all’Europa e teso al futuro, o invece levare l’àncora verso il passato, quasi fossimo ancora protetti dalla Cortina di Ferro? Vedremo chi avrà il coraggio di provare a raccontarci che viviamo nel Paese dei Balocchi.

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