19 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Ernesto Galli della Loggia

Dare la cittadinanza a un minore solleva una questione delicata: e cioè il rapporto che il minore ha con la sua famiglia e il suo contesto


La proposta di legge che va sotto il nome di ius culturae si propone di dare la cittadinanza italiana a tutti i giovani immigrati minorenni i quali, anche se non nati nella Penisola, abbiano tuttavia frequentato con profitto qui da noi almeno un ciclo scolastico di cinque anni o un corso di formazione professionale triennale. Come ho già detto in un articolo precedente, sono personalmente convinto che sia un precipuo interesse dell’Italia avere cittadini di origine diverse da quelle tradizionali del nostro Paese, immigrati o figli di immigrati. Il sospetto alimentato dalla destra che chi sostiene questo lo faccia solo perché conta sui voti di nuovi elettori mi sembra, devo dire la verità, una pura ridicolaggine. Ciò detto penso però che qualunque allargamento del diritto di cittadinanza debba obbedire a due precise condizioni: rispondere a rigorosi criteri di sicurezza e godere del massimo consenso degli italiani. Una legge volta a creare nuovi cittadini non può nascere dividendo quelli che già lo sono.
L’idea di fondo dello ius culturae è chiara: chi ha frequentato un ciclo scolastico o un corso di formazione è già di fatto pienamente integrato nella nostra società. Ma che cosa intendiamo esattamente quando parliamo di integrazione? Intendiamo, immagino, l’inserimento nel contesto sociale, economico e culturale italiano di chi, pur provenendo da un contesto diverso, tuttavia accetta il nostro sistema di vita e i suoi valori caratterizzanti. È una definizione che non sembra porre problemi. Invece ne pone uno importante, questo: si può accettare il sistema di vita e i valori caratterizzanti di una società, senza praticarli sia pure in parte? In teoria forse sì, ma non credo che sia possibile nella pratica. Nella realtà delle cose, infatti, non condividere certi valori difficilmente va d’accordo con la loro effettiva accettazione. Mi spiego: se tizio nel proprio ambito familiare non osserva ad esempio i valori di eguaglianza tra uomo e donna e ne pratica invece altri e diversi fondati mettiamo sulla diseguaglianza, sulla totale supremazia del marito sulla moglie, del padre sulle figlie, magari impedendo all’una e alle altre di uscire di casa o di avere certe relazioni sociali, si può ciò nonostante considerare questo tizio integrato con il contesto italiano per il semplice fatto che in pubblico egli non si pronuncia contro le regole di tale contesto e dichiari perfino di accettarle?
Mi sembra difficile rispondere affermativamente. Ma proprio una tale risposta rende inevitabile concludere che accettare un sistema di vita e i valori di una società significa anche praticarli, farli propri. Si è realmente integrati solo se c’è una condivisione di tal genere. Se però le cose stanno così, in che senso si può supporre, ad esempio, che un adolescente di 12-13 anni, per il semplice fatto di avere frequentato un ciclo scolastico quinquennale (ad esempio il primo ciclo della scuola dell’obbligo, la vecchia scuola elementare), e a maggior ragione uno dei tanti corsi triennali di formazione professionale (organizzati, lo ricordo, dalle Regioni e dalle Provincie: si ha un’idea della loro reale natura, della loro povertà culturale?), in che senso si può supporre, dicevo, che un tale adolescente sia virtualmente «integrato» nella società italiana, cioè ne condivida e pratichi i valori? Quale sistema di vita, quali valori può aver mai praticato o praticare a quell’età, che non siano tifare per la Juve, amare gli spaghetti e flirtare con qualche compagna/o? La scuola italiana non ha assolutamente un’impronta identitaria e d’altro canto la lettura della Costituzione unita a qualche discorso edificante sulla medesima non servono certo a molto; nei corsi di formazione poi manca perfino quello.
In realtà, dunque, dare la cittadinanza a un minore solleva inevitabilmente una questione delicata ma non perciò meno cruciale: e cioè il rapporto che il minore stesso ha con il suo contesto, con la famiglia, il peso dell’ambiente familiare. Questione che è tanto più importante sulla base di un innegabile dato di fatto: e cioè che in alcune culture di provenienza di molti immigrati, in particolare in quella islamica, l’influenza ambientale-familiare e quella del circuito dei connazionali/correligionari è tradizionalmente assai forte, spesso totalmente condizionante. Posto tuttavia che sarebbe impossibile (oltre che probabilmente illegale) qualunque indagine in tali ambiti, non rimane che una conclusione: l’attribuzione della cittadinanza agli immigrati non può avvenire su una base automatica e generalizzata, bensì è consigliabile che avvenga sempre su base individuale e previo accertamento delle qualità specifiche del richiedente (automatico e generalizzato deve essere ovviamente il criterio di accesso a tale accertamento), nonché con un suo impegno adeguatamente formale e solenne. Anche per questo mi sembra che l’attribuzione non possa avvenire che al compimento della maggiore età: così come del resto accade in molti Paesi con antica tradizione di immigrazione e di accoglienza.
Ma proprio quanto fin qui detto sottolinea la necessità che l’Italia adotti al più presto una politica d’integrazione specificatamente rivolta ai giovani e giovanissimi provenienti da altri Paesi: politica che può essere svolta nell’ambito della scuola ma non dalla scuola solamente, che ha già fin troppe cose di cui occuparsi. Quei giovani e giovanissimi, sono una delle fonti preziose del nostro avvenire, con loro abbiamo l’obbligo (e la convenienza) di essere generosi di mezzi e larghi di iniziative. In che modo? Ad esempio – e naturalmente avendo sempre cura di mettere insieme ragazzi e ragazze e con l’ovvia presenza anche di una quota di giovani italiani – programmando viaggi gratuiti d’istruzione nei luoghi storico-artistici del nostro Paese, organizzando campeggi estivi nei suoi territori più tipici, organizzando brevi soggiorni estivi nelle nostre scuole militari (la Nunziatella, il Morosini), promuovendo concorsi culturali a loro riservati (il migliore racconto, il più bel tema su una figura o un momento di storia italiana), destinando loro ma soprattutto alle ragazze vasti programmi di borse di studio, mandando in onda programmi radiofonici e televisivi a loro dedicati e da loro gestiti. I modi sono mille, basta pensarci. Manca l’istituzione ad hoc? Si crei. Tra tanti enti inutili e costosi perché non si può pensare ad esempio a un Sottosegretariato alla gioventù dedicato specialmente a questo scopo? Perché la classe politica italiana deve sempre segnalarsi per la sua pochezza, le sue diatribe inconcludenti e la sua vista corta e una volta tanto non prova, invece, a pensare un po’ in grande e a guardare un po’ più lontano?

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