Salvini sembra controllare il partito ma non la sua politica, a Conte viene invece lasciato il compito di occuparsi di politica senza controllare il partito
ome mai i due più grandi interpreti della stagione del populismo appaiono oggi i leader in maggiore difficoltà? Sia Salvini sia Conte hanno perso mordente. Il primo sembra alla rincorsa continua dei suoi governatori e dei suoi ministri. Ha appena finito di alzare la voce per riaffermare la propria autorità dopo le critiche di Giorgetti. Gli hanno detto tutti di sì, il capo sei tu: e poi hanno ripreso a occuparsi del governo regionale e centrale a modo loro. Si è visto con chiarezza nella vicenda del cosiddetto «super green pass»: Salvini si è attardato a difendere il tampone dei non vaccinati, mentre tutte le Regioni del Nord spingevano per scelte di maggior rigore in difesa dei vaccinati. Ha invece addirittura sorpreso l’arringa con cui l’ex «avvocato del popolo» Conte ha difeso la sua prerogativa, in quanto capo del M5S, di scegliere almeno uno dei direttori Rai. Sia perché è una implicita ammissione di sconfitta («specialista di penultimatum», l’ha definito Grillo); sia perché stride con la benemerita tradizione anti-lottizzatoria del Movimento. Mentre Salvini sembra controllare il partito ma non la sua politica, a Conte viene lasciato il compito di occuparsi di politica senza controllare il partito. Il primo non è riuscito così a trasformare una forza territoriale e di governo come la Lega in un movimento di euro-destra sovranista; il secondo sta verificando quanto sia difficile fare di un movimento populista fondato da Grillo una forza politica moderata e di centro.
Intendiamoci, entrambi restano la migliore chance per i rispettivi partiti alle elezioni: alternative o sostituti non se ne vedono. Ma su tutti e due incombe la sindrome del «re-travicello»: trasformarsi in leader che regnano ma non governano.
Salvini ha certamente dalla sua una maggiore esperienza e il capitale di credibilità che ancora gli deriva dall’aver portato un partito moribondo a diventare il primo d’Italia. Ma è anche vero che, proprio per questo, dei due è quello che rischia di più nel piatto della partita a poker dei prossimi mesi: se sceglie la moderazione, votando insieme con la maggioranza di governo un nuovo presidente della Repubblica, può perdere Meloni, forse anche Berlusconi, comunque il centrodestra. Se invece scarta e sceglie le barricate e una battaglia minoritaria, può perdere il governo.
D’altra parte, le vette di consenso sono ormai un ricordo del passato per entrambi. La Lega è tornata nei sondaggi quasi al risultato delle politiche del 2018, buono ma non straordinario come le europee dell’anno dopo; il M5S si aggira su percentuali di poco inferiori, ormai dimezzato rispetto al suo trionfo elettorale. Salvini rischia il sorpasso della Meloni. Conte l’ha già subito da Letta. La forza propulsiva di entrambe le versioni del populismo all’italiana sembra in via di esaurimento: uno dei due andrà sicuramente al governo dopo le prossime elezioni, ma difficilmente si siederà a Palazzo Chigi.
Salvini e Conte, del resto, meriti e demeriti personali a parte, hanno interpretato un’epoca: quella dei ristori e dei bonus. Durante la pandemia la spesa per politiche sociali è aumentata di un terzo e per la prima volta nella storia nazionale ha superato i cento miliardi di euro (dati del «Rapporto Welfare Italia 2021»). Oggi siamo entrati in un altro tempo, in cui si deve ricominciare ad accumulare ricchezza nazionale per poterla poi redistribuire attraverso un welfare ripensato e rimodellato. Si comprende perché leader che hanno legato il loro nome a politiche come quota 100 e reddito di cittadinanza abbiano difficoltà a riconvertire il loro messaggio verso un programma di sviluppo. Dopo la spesa per l’assistenza, ora tocca alla spesa per investimenti. Torna cruciale il tema del lavoro: troppo pochi italiani ce l’hanno, soprattutto giovani e donne, e non tutti hanno ripreso quello che avevano: a settembre eravamo ancora sotto di 400 mila unità. Abbiamo bisogno di produrre di più per sfuggire alla doppia tenaglia del debito demografico e del debito pubblico. È insomma venuto il momento di crescere. Per tutti. Anche per i leader della stagione populista. Ne saranno capaci?