19 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Angelo Panebianco

La combinazione fra il declino demografico e una tradizione per la quale conta poco la qualità dell’istruzione spiega bene perché gli allarmi cadano sempre nel vuoto

Se se lo possono permettere, ossia se dispongono di istituzioni sociali e politiche solide (è il caso, ad esempio, di certi Paesi asiatici) le società demograficamente giovani concentrano grandi quantità di risorse in istruzione, formazione, ricerca scientifica: in altri termini, quelle società investono massicciamente sul futuro. Invece, le società afflitte da declino demografico come l’Italia sono interessate solo al presente. Comprensibilmente, in una società siffatta, sanità (anche prima della pandemia) e pensioni contano molto di più di istruzione e ricerca. Pesano anche, nel nostro caso, certi vizi ormai di antica data: non puoi trattare per decenni e decenni le istituzioni educative pubbliche come se la loro funzione principale non fosse quella di educare ma di assorbire forza lavoro (è ciò che fa la classe politica fin dai tempi della Democrazia Cristiana) senza che alla fine non se ne paghi il prezzo. Declina drammaticamente la capacità di istruire e di formare. Si aggiungano gli effetti deleteri del populismo scolastico: l’idea perversa e balorda che a un certo punto diventa dominante secondo cui «diritto allo studio» sia un sinonimo di «diritto al diploma». Non c’è nulla di strano se poi viene fuori che una maggioranza di diplomati non è in grado di comprendere un semplice testo scritto. Non c’è nulla di strano se i test Invalsi ci restituiscono l’immagine di una scuola pubblica a macchia di leopardo: alcuni «pezzi» (scuole) pregiati, privilegiati dalla sorte per ragioni misteriose, accanto a tanti altri che non formano ma «deformano» le menti degli allievi che hanno la sfortuna di finirci dentro.

28 maggio 2020 (modifica il 28 maggio 2020 | 21:51)

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