19 Settembre 2024

Fonte: La Stampa

di Marcello Sorgi

È inutile girarci attorno: è una crisi di sistema, quella a cui stiamo assistendo da più di due mesi e ieri ha assunto di ora in ora connotati sempre più drammatici. Bastava guardare il volto segnato di Mattarella, quando è apparso in serata al Quirinale al termine del terzo giro di consultazioni, finito come gli altri senza risultati, per capire che tutte le regole stanno saltando e il Paese si avvia a nuove elezioni a rotta di collo, come travolto da una valanga. Se l’arbitro non è più in condizioni di fermare il gioco, se la sua proposta viene respinta prima ancora che abbia il tempo di illustrarla, se sono i giocatori a dettare le condizioni senza più rispetto per nessuno, non si può più parlare soltanto di crisi politica, è molto di più: un fiume che ha rotto gli argini, una specie di inondazione, qualcosa di cui a questo punto è difficile, se non impossibile, prevedere le conseguenze.
Eppure la soluzione ipotizzata dal Capo dello Stato, dopo aver preso atto dell’ennesimo fallimento di Di Maio e Salvini nel costruire un accordo, era assolutamente ragionevole: un governo a termine, di servizio, incaricato di affrontare le questioni più urgenti, la manovra economica, il vertice europeo di giugno in cui un’assenza o una presenza non a pieno titolo dell’Italia potrebbe costarle cara.
E soprattutto pronto a uscire di scena in ogni momento di fronte al maturare di una concreta ipotesi di intesa per dar vita a un esecutivo politico vero, o per riportare gli elettori alle urne in un quadro meno preoccupante di quello attuale. Il Presidente della Repubblica, tenendo a freno la sua amarezza per ciò a cui ha dovuto assistere nelle ultime settimane, ha elencato, sperando di risultare convincente, tutti i possibili effetti negativi di un mancato «sì» a quest’ultima possibilità, per avviare la legislatura ed evitare un secondo giro di elezioni a distanza di così poco tempo dal 4 marzo: a cominciare dall’aumento dell’Iva al 24 per cento, che trascinerebbe rincari di prezzi ben più consistenti, dai timori di un forte rallentamento della «ripresina» economica appena avviata, dai rischi di speculazioni finanziarie e dirottamento o cancellazioni degli investimenti, dovuti all’incertezza della situazione attuale e alle previsioni, del tutto fondate, che il quadro possa ancora peggiorare.
Ma a meno di ripensamenti – auspicabili ma imprevedibili, visto l’andamento della giornata – il «no» all’iniziativa del Capo dello Stato da parte dei due (non) vincitori Di Maio e Salvini era già confezionato, esplicitato, comunicato e spedito al destinatario sul Colle, con tanto di richiesta di sciogliere subito le Camere in tempo per far votare l’8 luglio, prima ancora che Mattarella prendesse la parola per l’intervento più atteso di tutta la crisi.
È stato questo ennesimo sgarbo, questa mancanza di rispetto anche minimo, questa assoluta incapacità di ascolto, manifestata platealmente, per non dire sfrontatamente, alla fine di un vertice a due Di Maio-Salvini svolto nel primo pomeriggio, a consultazioni ancora in corso, a rendere quasi inutile – pur nella sua assoluta dignità – il breve intervento di Mattarella, che qualcuno si sarebbe aspettato animato da un maggior senso di sfida, e che invece il Presidente, data la delicatezza del momento, ha voluto pronunciare con la sua abituale pacatezza e con un evidente atteggiamento desolato, per non aggiungere tensione a tensione.
A conti fatti, anche approssimativamente, il «governo di servizio» non ha alcuna possibilità di ottenere la fiducia: con l’appoggio del Pd e dei gruppi minori che hanno annunciato che lo sosterranno, e con qualche possibile dissidenza, limitata per forza di cose perché chi si oppone alla maggioranza del «no» del leader pentastellato e di quello leghista sa che la pagherà con l’esclusione dalle liste, gli mancherebbero un paio di centinaia di voti per arrivare alla maggioranza alla Camera e solo un po’ meno al Senato. Troppi. Finirà battuto, e speriamo che una parte del prezzo della sconfitta qualcuno non lo metta in conto al Quirinale. Le elezioni a luglio, l’insediamento delle nuove Camere ad agosto, le nuove consultazioni sotto la canicola: non era mai successo niente del genere in settant’anni di storia repubblicana, neppure al tempo dei più aspri scontri ideologici, o quando, proprio quarant’anni fa, il terrorismo mirava ai vertici dello Stato. Sarà anche vero che ci si abitua a tutto. Oppure, stavolta no: chissà che al prossimo giro, dopo quel che hanno visto in questi due mesi, gli italiani non cambino idea.

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