In passato lo spirito di fazione ha velato a lungo molti occhi, ma i ragazzi di oggi possono evitarsi l’errore
C hi è Vladimir Kara-Murza? Per verificare il nostro reale livello di attenzione sulla tragedia collettiva causata da Putin basterebbe un semplice test in famiglia o in ufficio. Ammettiamolo: anche tra chi ne ha letto o sentito qualcosa nei notiziari, pochi ricorderanno il nome di questo dissidente russo. Scorrendo Google troveremo quasi soltanto articoli dello scorso 17 aprile. Quello è il giorno della sua condanna smisurata, venticinque anni di colonia penale solo per avere detto al mondo la verità: che l’esercito di Mosca massacra sistematicamente i civili ucraini. Poi, il nulla: vuoto e silenzio. Di Kara-Murza, dalle nostre parti, non parla quasi nessuno, non uno striscione, uno slogan, una petizione.
In un recente saggio sull’Ucraina, «La guerra nel cuore dell’Europa», il sociologo Vincenzo Cesareo pone «il rischio dell’oblio» tra i pericoli che può addurci il conflitto: l’orrore si metabolizza, i mesi scorrono e anestetizzandoci aiutano il dittatore del Cremlino. Un grande passo per scongiurare questo pericolo sarebbe la caduta dei paraocchi tra i nostri pacifisti. Intendiamoci: la pace è il desiderio di tutti, solo un pazzo può dormire sonni tranquilli mentre scorre il sangue e volano missili nel cortile della nostra casa europea. Per una volta, inoltre, eviteremo anche il quasi ineludibile parallelo con gli anni Trenta del secolo scorso e con lo sciagurato appeasement anglo-francese che spianò la strada alle conquiste di Hitler. Temiamo, certo, che con un tiranno accusato di crimini di guerra (Putin, ove sconfitto, potrebbe finire davanti al tribunale dell’Aia) non sia possibile dialogare: non foss’altro che perché è lui stesso a rifiutare qualsiasi serio sforzo diplomatico.
E tuttavia i ragazzi di oltre cento scuole e quasi altrettante università affluiti in Umbria pochi giorni or sono al richiamo della Marcia per la pace, con la loro tensione «planetaria» verso tutti i teatri di conflitto, «dal Sudan alla Libia, da Gaza alla Siria», non meritano certamente di essere bollati come appeaser novecenteschi o come utili idioti del dittatore russo. Hanno negli sguardi una speranza pulita: negarlo sarebbe ricadere in quello schematismo da realpolitik che immagina il mondo come un planisfero di Risiko, dove le potenze si muovono prescindendo da sentimenti, passioni, emozioni individuali e collettive.
Ma allora è proprio a questi nostri ragazzi, ai giovani pacifisti italiani, che chiediamo d’alzare quegli sguardi, volgendoli anche oltre i confini della loro causa, ai tanti dissidenti (e pacifisti) russi dimenticati e sepolti nelle colonie penali che il caso Kara-Murza racconta: proprio come i loro padri e nonni non furono capaci di fare perché accecati dall’ideologia.
Ci sono posti nel mondo dove contrastare le posizioni di un governo costa qualcosa di più d’una polemica mediatica sul «pensiero unico bellicista». Uno di questi posti è la Russia. Da sempre. Qualche giorno fa sul Foglio, Luciano Capone citava Natan Sharansky, uno dei maggiori dissidenti nell’Unione Sovietica di Breznev, dieci anni di gulag sulle spalle. Sharansky, ancora oggi attivista per i diritti umani, ha spiegato che per far cadere Putin occorrono due condizioni: la prima è un forte dissenso politico, animato da chi è disposto a sacrificare per esso la propria vita; la seconda, che ci chiama in causa in via diretta, è la solidarietà del mondo libero e dei suoi cittadini.
L’Italia, e segnatamente parte della sua sinistra storica, non ha una grande tradizione su questo punto, come dimostra l’incerta simpatia sollevata a suo tempo da un Nobel come Aleksandr Solzenicyn e il suo «Arcipelago Gulag». A lungo lo spirito di fazione ha velato molti occhi, con il timore che il dissenso nell’Urss si traducesse in un imperdonabile vantaggio strategico per gli odiati Stati Uniti. Ma quello era un mondo a blocchi, i ragazzi di oggi possono evitarsi l’errore: cercando verità, ovunque essa sia.
Ai giudici di regime che, condannandolo, gli chiedevano se fosse pentito, Kara-Murza, pacifista, storico e giornalista, ha risposto sferzante: «Non solo non mi pento di nulla, ma ne vado fiero. Sono i criminali che si devono pentire. Io invece mi trovo in prigione per le mie opinioni politiche, perché ho parlato contro la guerra in Ucraina. Ma so anche che verrà il giorno in cui le tenebre sul nostro Paese si disperderanno, in cui la guerra sarà chiamata guerra e l’usurpatore, usurpatore; e saranno detti criminali quelli che l’hanno fomentata e scatenata, e non quelli che hanno cercato di fermarla». È un’apologia che, per forza e ribaltamento di ruoli, ne ricorda molto un’altra, datata ormai oltre mezzo secolo: quella di Alessandro Panagulis contro i giudici greci che lo condannavano a morte. Con una differenza non piccola: Alekos aveva attentato alla vita del golpista Papadopoulos, Kara-Murza ha usato contro Putin la sola violenza delle parole e della profezia: «La notte è più buia prima dell’alba», ha detto, citando una frase molto ripetuta proprio tra i dissidenti sovietici. Accelerare l’avvento di quell’alba è compito di chi ha il privilegio della libertà. Anche, o forse soprattutto, di quei nostri ragazzi che si battono per la pace.