Fonte: Corriere della Sera
Lo smartworking in epoca Covid è un lusso. E aumenta le differenze tra uomini e donne. E anche tra dipendenti «ricchi» e «poveri». A questa conclusione giunge uno studio dell’Inapp. L’istituto — che ha come obiettivo quello di offrire elementi di valutazione al decisore politico — stima che i dipendenti che hanno la possibilità di lavorare in smartworking siano il 48% del totale. Questi hanno una retribuzione media annua che sfiora i 28 mila euro lordi. I dipendenti che non hanno possibilità di fare lo smartworking perché lavorano a diretto contatto con il pubblico (dagli inferimeri agli operai passando per commessi e addetti alle consegne) hanno una retribuzione media che non arriva a 25 mila euro l’anno. Questa differenza è andata aumentando perché chi ha continuato in emergenza a lavorare in smartworking ha conservato intatto il proprio stipendio mentre gli altri hanno fatto i conti con riduzioni di orario parziali o totali e quindi con la cassa integrazione. Le differenze già esistenti sono quindi aumentate.
Coloro che hanno la possibilità di lavorare smart sono in maggioranza uomini (del resto si sapeva, i livelli retributivi più alti sono maschili e le donne si concentrano nei lavori dei servizi e di cura con compensi più bassi. Quindi lo smartworking da Covid tende ad aumentare il divario di genere. I ricercatori dell’Inapp chiamano il lavoro agile come “un Robin hood al contrario” pur riconoscendo che nel frangente dell’emergenza questa modalità ha consentito ai lavoratori di proteggere la salute senza rinunciare al lavoro e allo stipendio. Ora il punto è che lo smartworking legato al contenimento dell’epidemia continuerà. E l’aumento delle differenze tra chi può lavorare a distanza e chi no potrebbe diventare strutturale.