II tasso di inflazione misura la crescita del livello dei prezzi di un Paese sulla base di un paniere di beni e servizi che viene rinnovato con regolarità. Un suo rallentamento, come sta avvenendo nei mesi del 2023, non vuol dire che il livello dei prezzi si abbassi, ma
semplicemente che continua a crescere, magari con intensità più bassa. E quindi, l’ultimo aumento, anche se più basso, si cumula ai precedenti. Il tasso di inflazione colpisce tutti. Ma non sempre nello stesso modo, dipende dai beni e servizi che ne sono toccati. Chi ha meno disponibilità economiche spende di più, in proporzione, per ciò che è indispensabile, alimentazione, bollette, affitto, energia. E
queste spese pesano di più sul suo budget complessivo. Chi sta meglio economicamente può permettersi di variegare le proprie spese con più servizi ricreativi, altri beni, costi di trasporto maggiori. I più disagiati hanno anche vincoli di spesa oggettivi, risparmiano poco o per niente e devono ricorrere a indebitamento a fronte di eventi eccezionali. Gli altri hanno libertà di scelta. E così che il tasso di inflazione generalmente colpisce in modo differente i diversi gruppi di famiglie. Nelle fasi di minore inflazione (da gennaio 2016 a giugno 2021) il gap tra l’indice dei prezzi del gruppo con minor potere di spesa rispetto a quello con maggiori disponibilità è oscillato poco, tra — 0,7 e 1,0 punti percentuale. Lo documenta bene l’Istat. Nei due anni in cui i prezzi al consumo in Italia sono diminuiti (2016 e 2020), il gruppo con minore potere di spesa ha addirittura sperimentato una situazione migliore rispetto a quello con maggiori disponibilità. Il problema sorge da aprile 2021, già a luglio la differenza di tasso di inflazione era di 1,2 a svantaggio delle famiglie più disagiate, a gennaio 2022 diventa 2,6, a settembre 4,5 e tra ottobre e novembre raggiunge 9. Cioè, il tasso di inflazione dei più poveri raggiunge a ottobre il 18,6% contro il 9,9% dei più ricchi e a novembre lo stesso. Nel primo trimestre del 2023 con il rallentamento dell’inflazione il gap si riduce a meno di 3 punti percentuali. Quindi, in tutti questi mesi il potere d’acquisto delle famiglie con minor capacità di spesa è stato eroso più ampiamente di quello delle famiglie più ricche e la crescita dell’inflazione si è cumulata mese dopo mese. Non possiamo che aspettarci con elevata probabilità un ulteriore aumento della povertà assoluta nel 2022. Tanto più che la stabilità della povertà nel 2021 si è verificata principalmente per l’aumento dell’inflazione, che nel 2021 ha raggiunto solo il +1,9%, ma che comunque, come l’Istat segnala, ha impedito che la quota di famiglie in povertà assoluta scendesse. Nel frattempo che cosa succede ai salari nel nostro Paese? Più della metà dei lavoratori attende di sottoscrivere il contratto nazionale di lavoro. Il numero medio di mesi di attesa è alto, 23,4. Nella media del primo trimestre 2023 la dinamica salariale e quella dei prezzi (indice Ipca) differiscono di 7 punti percentuali, a svantaggio dei salari. Inoltre, il mondo del lavoro soffre di un problema grave di lavoratori poveri. Sono 4 milioni quelli che non arrivano a guadagnare 12 mila euro lordi all’anno, o perché hanno una paga oraria inferiore alla mediana, o perché svolgendo lavori precari o a intermittenza non riescono a raggiungere un numero di ore adeguato per avere un salario dignitoso. La crescita del Pil è importante, ma non è condizione sufficiente a garantire la soluzione di questi problemi e la diminuzione delle disuguaglianze sociali. La povertà è raddoppiata nel 2012 e non siamo mai
riusciti a tornare ai livelli precedenti. L’occupazione è in ripresa, ma stiamo ancora a livelli bassissimi rispetto ai Paesi Ocse, per l’occupazione maschile, femminile, giovanile. Pochi occupati vuol dire molta povertà. Bassi salari vuol dire più lavoratori poveri. E necessaria una strategia unica di sviluppo del paese, che freni l’inflazione, sviluppi occupazione di qualità e infrastrutture sociali, sostenga i salari, combatta la povertà. Non è una misura che conta, ma un complesso di misure coerenti tra loro. Il salario minimo è una di queste. E ci permette anche di ridurre diseguaglianze di genere, generazionali e territoriali.
Dobbiamo capirlo. Non possiamo lasciare che le condizioni di vita delle persone più vulnerabili peggiorino ulteriormente e che nuovi poveri vadano ad ingrossare le fila dei vecchi.