25 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Sabino Cassese

Immersi nelle urgenze della gestione quotidiana, gli amministratori, i politici e i burocrati operano «a sentimento», prescindendo dalla realtà da regolare


Quale è lo stato di salute delle istituzioni? La pandemia vi ha lasciato ferite, e queste sono sanabili? Quale futuro esse promettono?L’Italia ha dimostrato quello che da tempo i migliori studiosi di scienze organizzative rilevano: sappiamo fronteggiare eventi straordinari, molto meno l’ordinario. Le istituzioni hanno retto, nonostante che una buona parte di esse si sia fermata per la pandemia, nonostante i livelli retributivi bassi, nonostante i tanti assunti senza concorso per pressioni sindacali o fame di posti di politici di passaggio (alcuni si sono persino vantati di aver immesso in ruolo decine di migliaia di avventizi), nonostante che lo Stato debba fare sempre più ricorso a organismi satelliti per colmare le proprie debolezze, nonostante che nel settore pubblico vi sia miseria senza nobiltà.
Nell’edificio pubblico, però, si vedono crepe che si allargano sempre di più. La prima riguarda la separazione dei poteri, progressivamente sostituita dalla condivisione o dalla confusione dei poteri. Il governo, da due anni ormai, legifera a furia di una media di quattro decreti legge al mese. Il Parlamento, al quale spetta la funzione legislativa, legittima questa invasione, ma ci aggiunge del suo: i decreti legge, dopo la conversione in legge, «pesano» un terzo in più, talvolta raddoppiano la lunghezza, perché il ramo legislativo vi aggiunge nuove norme.
Queste nuove norme sono a volte estranee alla materia trattata e servono a soddisfare esigenze in larga misura localistica, o settoriale, o corporativa, o perché il governo si ricorda all’ultimo minuto di nuove esigenze. Se l’esecutivo esonda nel legislativo, quest’ultimo a sua volta ambisce a fare norme e ad applicarle, tante sono le leggi «autoesecutive», così dettagliate da non lasciare spazio alla discrezionalità delle amministrazioni. L’ordine giudiziario, a sua volta, occupando gli uffici dell’apposito ministero con i suoi magistrati, gestisce l’organizzazione e il funzionamento dei servizi della giustizia, che spetterebbero all’esecutivo e, in nome di un autogoverno della magistratura che non sta scritto nella Costituzione, fa valere le proprie esigenze corporative nella legislazione in materia di giustizia, intervenendo anche nell’arena politica. Intanto, il Csm assiste senza batter ciglio al coma della giustizia. Nessuno, dunque, fa il mestiere proprio. Si sente l’assenza di «regolatori del traffico».
Arriva ora il Piano di ripresa, che dominerà la scena delle istituzioni per il prossimo quinquennio. Ma anche per gestire questo intervento straordinario occorre prepararsi, cominciando dalle conoscenze. La gestione degli Stati moderni richiede accurata analisi della realtà da regolare e una completa informazione sulle proprie attività. Immersi nelle urgenze della gestione quotidiana, gli amministratori, politici e burocrati, operano «a sentimento», prescindendo dalle une e dall’altra. Ad esempio, come si può intervenire sul reddito di cittadinanza o sulle pensioni, se non si possiedono dati precisi sui beneficiari, sui controlli svolti dagli uffici pubblici, sui loro risultati? Ha ragione la Corte dei conti quando osserva che tutta l’attenzione viene prestata al bilancio di previsione, mentre è il rendiconto che, insieme con il giudizio di parificazione, consente di verificare quanto si è realizzato. L’aver imposto norme di trasparenza è servito a soddisfare curiosità voyeuristiche, non a conoscere meglio e a far conoscere quel che lo Stato fa (quanti dipendenti sono entrati senza concorso, quante autorizzazioni vengono date per anno, qual è lo stato di attuazione delle leggi, per fare solo qualche esempio). La stessa Corte dei conti, invece di inseguire con controlli preventivi ogni singolo atto, dovrebbe concentrare i suoi sforzi su questa attività conoscitiva, come ha fatto di recente la sua Sezione delle autonomie: questa ha rilevato che, per evitare sanzioni, il venti per cento delle società partecipate da Stato ed enti pubblici elude obblighi imposti dal codice civile, come l’approvazione dei bilanci annuali.
Per trasmettere una visione del futuro e diventare quindi capaci di dare fiducia ai cittadini, che è il compito principale dei poteri pubblici, questi debbono impegnarsi a ricostituire le grandi reti dei servizi pubblici, a partire dalla sanità e dalla scuola, rimediando alle lacerazioni che si sono prodotte in questi anni: abbiamo visto che i rispettivi ministeri non conoscono neppure lo stato dei servizi a livello territoriale e che questi ultimi non possono contare sugli uffici centrali, quando ne hanno bisogno.
Il secondo compito al quale dedicarsi con urgenza è quello di non dover contare sempre sulla spesa pubblica per mantenere la pace sociale. Gli anni dell’abbondanza finiranno presto, e allora la pace sociale andrà ricercata con altri mezzi, rendendo più produttivi i servizi pubblici, e quindi facendo riforme per migliorarne la gestione.
Infine, il Piano di ripresa e i suoi innovativi strumenti si affiancano oggi alle fatiscenti strutture e procedure pubbliche. Bisognerà essere pronti a trasferire i primi nella gestione ordinaria, in modo che questa diventi più moderna.

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