Fonte: Corriere della Sera
di Ernesto Galli della Loggia
In una democrazia come la nostra l’interesse pubblico è quello che ogni maggioranza e ogni ministro reputa che sia
Nei regimi democratici è compito della stampa illustrare con obiettività i punti di vista dell’opposizione, anche quando non li si condivide e ancora di più, quando è necessario, difenderne i diritti. È il caso mi sembra di due questioni importanti venute alla luce di recente e riguardanti rispettivamente Fratelli d’Italia e la Lega.
La prima riguarda i servizi segreti, o per dir meglio le agenzie di intelligence che all’interno e all’esterno del Paese hanno il compito di difendere gli interessi vitali della Repubblica. Servizi segreti che — dopo le ambiguità, le «deviazioni» e i veri e propri tradimenti ormai risalenti all’altro secolo addebitabili ad essi pur se sempre avvolti nelle nebbie dello scarico di responsabilità — dal 2007 obbediscono a una nuova normativa. Stando alla quale essi operano alle dipendenze del presidente del Consiglio (espressione, lo ricordo, di una maggioranza parlamentare), il quale ne nomina i vertici, sovrintende al loro operato e ne porta ovviamente la piena responsabilità politica. Tuttavia, data la delicatezza dei poteri così attribuiti al presidente del Consiglio, la legge ha previsto come una sorta di contrappeso l’esistenza di un Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir) con compiti di verifica e di controllo sistematico sull’operato dei servizi stessi.
Non solo, ma al fine di sottolineare il carattere di organo di garanzia del Comitato ha stabilito che presidente del Copasir debba essere sempre un parlamentare dell’opposizione, cioè della minoranza parlamentare. E infatti è sempre stato così fino ad ora. Fino a quando cioè le vicende politiche italiane hanno portato alla costituzione di un governo — quello di Mario Draghi — sorretto da uno schieramento che comprende tutti i partiti salvo uno, Fratelli d’Italia. Al quale quindi, come prescrive la legge e come si è sempre fatto, spetta oggi la presidenza del Copasir. Ecco però che a questo punto il presidente in carica del Copasir, il senatore Raffaele Volpi della Lega, si rifiuta di lasciare la sua poltrona. Senza alcuna motivazione: si rifiuta e basta.
Poco male, si dirà: i presidenti delle Camere — ai quali spetta tra l’altro la nomina del Comitato — esistono proprio per questo: per far rispettare le norme secondo le quali deve funzionare il Parlamento. Soprattutto, ci piace immaginare, al fine di garantire i diritti della minoranza. Un Parlamento in cui tale diritto è violato, infatti — e tanto più se ciò avviene con il consenso di chi lo presiede — non ha più nulla di un Parlamento. È qualcosa di mezzo tra un Bar dello sport e la Camera dei fasci e delle corporazioni, vale a dire un luogo di discussioni inutili dove può aver ragione sempre uno solo.
È a questo punto che avviene qualcosa davvero singolare. I due presidenti delle Camere Maria Elisabetta Alberti Casellati e Roberto Fico, investiti della questione, decidono infatti di spogliarsi dei propri poteri. Invece di invitare il senatore Volpi a lasciare il suo posto a un presidente designato da Fratelli d’Italia decidono di non decidere e rimandano la palla ai partiti: se la vedano tra loro e cerchino loro un accordo. Che però, data la natura della disputa dove un compromesso è palesemente impossibile, naturalmente non si trova. E così, nonostante la lettera della legge, nonostante pareri di una schiera di costituzionalisti dei più vari orientamenti ma dal primo all’ultimo favorevoli all’avvicendamento, nonostante la moral suasion esercitata, pare, dalle sedi più autorevoli, nonostante tutto, da settimane la questione è ferma lì e il Copasir è di fatto paralizzato. Ancora una volta sul senso dello Stato e delle istituzioni ha prevalso insomma lo spirito fazioso dell’appartenenza. Oltretutto da parte di chi era meno ragionevole aspettarselo.
Vengo al secondo caso, che riguarda la Lega. Il cui segretario, come si sa, è stato rinviato a giudizio davanti al tribunale di Palermo a causa del divieto di sbarco da lui ordinato come ministro degli Interni, nel 2019, nei confronti di un gruppo di naufraghi raccolti dalla nave di una ong, la «Open arms». Uno dei pilastri argomentativi dell’accusa, ampiamente riportato dai giornali, è che Matteo Salvini nel prendere la decisione di cui sopra sarebbe stato mosso da ragioni politiche e non già per difendere un interesse dello Stato: parole più o meno riprese letteralmente da moltissimi giornali e notiziari radiotelevisivi.
A me pare un argomento che suscita molte perplessità. Infatti, se da parte del Salvini ministro c’è stata una violazione comunque dimostrabile e palese di qualche disposizione di legge, è fin troppo ovvio che egli vada portato in giudizio e condannato. Ma se in un qualunque modo viene in ballo invece una questione di discrezionalità (la legge gli dava il potere di decidere in un modo o in un altro) e/o di motivazioni (che cosa è che lo ha spinto a decidere come ha deciso?), allora la distinzione fatta dai magistrati tra ragioni politiche e interesse dello Stato è difficilmente sostenibile.
Per il semplice fatto che in un regime democratico parlamentare «l’interesse dello Stato» — a meno che qualche legge o la Costituzione non indichino chiaramente quale esso sia, che cosa debba intendersi con tale espressione — di per sé non esiste. In una democrazia come la nostra l’interesse dello Stato è quello che ogni maggioranza parlamentare e ogni ministro che ne fa parte reputa che esso sia. Coloro che governano, infatti, vengono eletti da una parte, sono esponenti di un partito, ma se possono contare su una maggioranza parlamentare il loro punto di vista — ripeto: politico di parte — per ciò stesso diviene legittimamente il punto di vista generale, diviene, se proprio vogliamo usare questa espressione, l’interesse dello Stato. Era un «interesse dello Stato» usare l’aviazione italiana per azioni di bombardamento in Kossovo come fece a suo tempo il governo D’Alema? È un «interesse dello Stato» che si costruisca una linea di alta velocità tra Torino e Lione? Se ne può discutere all’infinito, ma quel che conta è che chi ha preso quelle decisioni aveva il diritto di farlo dal momento che non c’era alcuna legge che lo vietava esplicitamente. Se nel caso di Salvini invece c’è, allora basta e avanza; sennò no. E tirare in mezzo l’interesse dello Stato serve solo a confondere le idee.